Estratto dall’articolo “Viroid Life. On machines, technics, and evoIution”, nel volume Viroid Life: Perspectives on Nietzsche and the Transhuman Condition, K. Ansell-Pearson, Routledge, London, 1997, pp. 145-150
Traduzione a cura di Filippo Scafi e Tommaso Garavaglia.
Le filosofie della Differenza, in particolare nello sforzo di Deleuze e Guattari, hanno offerto nuove prospettive all’interno del discorso sulla tecnologia, liberandolo dalle tentazioni biologizzanti e antropologizzanti che sono andate caratterizzando il dibattito e che continuano a tornare protagoniste ancora oggi. A partire dalle considerazioni dei due filosofi francesi, in questo testo del 1997 Keith Ansell-Pearson — maestro, fra gli altri, di Nick Land — offre una critica serrata ed estremamente attuale alle mitologie della tecnica emerse a partire dalla cibernetica, dalla questione della postmodernità e del capitalismo informatico.
________________________________________
Relativamente alla questione della tecnologia, nell’opera di Deleuze e Guattari non avviene nessuna reificazione delle macchine tecniche: i due si rendono conto che queste ultime appaiono solo come indici di assemblaggi più complessi che mettono in gioco forze materiali coevolutive, in cui il ruolo svolto dalla macchina sociale è decisivo. Non si è oppressi da una macchina tecnica, ma da una macchina sociale che determina in ogni momento l’uso, l’estensione e la comprensione degli elementi tecnici (cfr. Braudel 1981: 431: non c’è tecnologia in sé). Le macchine tecniche non sono una categoria economica, ma si riferiscono sempre a un socius, o a una macchina sociale, che mantiene da esse un certo grado di distinzione. Tale punto di vista lo si trova simile in Marx, per cui le macchine non rappresentano una categoria “economica” tanto più del bue che traina l’aratro. Deleuze e Guattari insistono sul fatto che gli assemblaggi non sono mai puramente tecno-logici. Gli strumenti presuppongono sempre una “macchina” e la macchina è sempre sociale “prima” che tecnica (cfr. Ellul 1965: 4-5, in cui la questione della macchina è ridotta interamente a una questione di “tecnica” meccanizzata). Come ha notato un commentatore in relazione alle nuove macchine cibernetiche, in nessun ambito saranno le tecnologie stesse a essere determinanti (Nichols 1988: 45). In altre parole, le questioni relative alla tecnologia cibernetica possono essere adeguatamente attestate solo quando sono articolate in termini di una teoria sociale della microfisica del potere. Una delle ragioni addotte da Deleuze e Guattari per il primato della macchina sociale è che le macchine tecniche non contengono le condizioni per la loro riproduzione, ma richiedono la macchina sociale che organizza e limita il loro sviluppo. Nel loro lavoro non c’è alcun tentativo di biologizzare grossolanamente il tecnico-sociale; bisogna evitare sia una lettura biologica della storia umana sia una lettura antropologica della storia naturale, poiché i pericoli di entrambe le strategie sono fin troppo evidenti. Il sociale è già artificialmente biologizzato. I termini della teoria politica, ad esempio, sono termini di cattura e di regolazione, in cui l’evoluzione delle società viene definita “embrionale”, “nascente”, “sottosviluppata”, e quella delle società del terzo mondo come “feti” e “aborti” di cultura e civiltà.
Nel contestare la concezione reificata dell’organismo che si trova all’interno di una varietà di pratiche discorsive, non si vuole sostenere un ritiro in una biosfera pre-sociale, ma piuttosto si vuole presentare una questione che opera su una miriade di fronti. Una politica del desiderio – l’assemblaggio macchinico di nuove solidarietà e formazioni – entra in gioco quando si riconosce che la tecnocrazia e la burocrazia (il funzionamento della macchina sociale) non possono mai essere ridotte al semplice funzionamento di macchine tecniche sul modello di una macchina cibernetica perfetta. Negli anni Sessanta, Vaneigem sosteneva che “ponendo le basi per una struttura di potere perfetta, gli esperti di cibernetica non fanno che stimolare la perfezione del suo rifiuto. La loro programmazione di tecniche sarà mandata in frantumi dalle stesse tecniche rivolte al proprio uso da un altro tipo di organizzazione” (Vaneigem 1994a: 85). In realtà, la situazione è oggi infinitamente più complessa di quanto Vaneigem potesse immaginare, poiché l'”esterno” – i futuri virtuali di ogni tipo – è stato catturato. Il capitalismo, avendo intrapreso un programma di endo-colonizzazione, è diventato un mercato di futuri possibili a qualsiasi livello si voglia pensare. “Niente è vero; tutto è permesso” non è più lo slogan del nichilista rivoluzionario, ma quello dei poteri di cattura consolidati. La rivoluzione sarà trasmessa in televisione (e lo è già stata). È questa la forza, ad esempio, che sta alla base dell’acuta intuizione di Umberto Eco sul terrorismo (post)moderno: il terrorismo non è il nemico dei grandi sistemi, ma il loro naturale contrappeso, accettato e programmato (Eco 1986: 116). Se i grandi sistemi funzionano come sistemi acefali, visto che non hanno protagonisti e non vivono di egoismi individuali, allora non possono essere colpiti dall’uccisione del re: “Se esiste una fabbrica completamente automatizzata, non sarà turbata dalla morte del proprietario, ma piuttosto da informazioni errate inserite qua e là, che rendono difficile il lavoro dei computer che la gestiscono” (ibid.: 115). Non è più sufficiente riflettere su Marx, suggerisce: bisogna anche riflettere su Norbert Wiener! Il Capitale rende nulla la grande intuizione di Marx: la storia di tutte le società finora esistenti è la storia della lotta di classe, tranne che per la “storia” del (tardo, sempre tardo) capitalismo! Per sempre il grande cinico, il capitale cannibalizza ogni negatività, “andando parodisticamente oltre le proprie contraddizioni” (Baudrillard 1994: 52).
La potente illusione di indipendenza che la tecnologia possiede è parte del suo immenso successo entropico e imperialistico: l’essenza della tecnologia non è nulla di tecnologico, ma appare come se lo fosse1. Il feticismo della tecnologia è una parte essenziale – e vitale – dell’illusione trascendentale del capitale. Ma la definizione sociale di ciò che è tecnologicamente fattibile o desiderabile non è esterna alla tecnologia, ma intrinseca ad essa. Una distinzione tra “economico” e “tecnologico” è arbitraria e poco intelligente (cfr. Hornborg 1992); il capitalismo si basa su un particolare incrocio di macchine tecniche e sociali. Come formazione sociale distinta, funziona trasformando le macchine tecniche in capitale costante attaccato al corpo del socius (in contrapposizione alle macchine umane, che sono giustapposte alle macchine tecniche). L’assioma sociale estende i suoi limiti attraverso i mezzi “non tecnici” di amministrazione e inscrizione. La cultura funziona come un meccanismo di selezione, inventando attraverso l’inscrizione e la codifica i grandi numeri – organismi e persone intere – nel cui interesse agisce. Ciò spiega perché “la statistica non è funzionale ma strutturale”, poiché riguarda catene di fenomeni che la selezione ha già posto in uno stato di parziale dipendenza.
“Lo si può vedere persino nel codice genetico” (Deleuze e Guattari 1983: 343). Lo Stato esiste per regolare i flussi decodificati scatenati dalle tendenze schizofreniche del capitalismo.
Mentre il capitale fonde tutto ciò che è solido e profana tutto ciò che è sacro, la società borghese garantisce che le forze produttive del cambiamento siano rese equilibrate attraverso la struttura territorialmente fissa e giuridicamente invariante dello Stato moderno (Balakrishnan 1995: 56-7) (e la notizia della sua morte è prematura).
Inoltre, attraverso la regolamentazione e il controllo statale, le pratiche di decodifica della scienza e della tecnica sono sottoposte a un assioma sociale più severo di qualsiasi “assioma scientifico”. La rivoluzione sociale e culturale della postmodernità riguarda la potenziale liberazione delle macchine tecniche dal controllo monopolistico e scientistico da parte delle forze molari di cattura che caratterizzano lo Stato capitalista moderno, un punto di biforcazione in cui il capitalismo non è più in grado di monopolizzare per sé le macchine tecniche come capitale costante collegato al suo corpo sociale. Il compito critico di un pensiero e di una prassi alieni, quindi, non può che essere quello di decodificare e deterritorializzare le macchine amministrative e normative prevalenti – nello Stato, nella filosofia, nella scienza, nella cultura e nell’informazione – che hanno definito e limitato il presente bloccando dispoticamente il libero flusso di energia e conoscenza in tutta la macchina sociale.
Le Grandi Narrazioni, a quanto pare, stanno tornando di moda, e lo stanno facendo con prepotenza, tramite l’assunzione di un carattere decisamente inumano in cui ci viene offerta una grande varietà di scenari apocalittici riguardanti una presunta transizione di fase verso un nuovo, “più alto” livello di evoluzione basato sull’intelligenza delle macchine, con conseguente acquisizione genetica della vita del carbonio da parte di macchine ibride (robot e computer) (per due resoconti del nostro destino neghentropico da parte di pensatori molto diversi, si vedano Lyotard 1991 e Tipler 1995). Ma questa rappresentazione dei destini neghentropici, in cui l’umano svolge il ruolo di mero tramite nel processo inumano di complessificazione, può solo fornire semplici opzioni che alla fine non sono affatto opzioni, come il ripiegamento su un nuovo purismo etico (piangere l’evento, testimoniare l’evento), un futile luddismo o una vacua cyber-celebrazione. I pericoli che derivano dal confondere biologia e tecnologia sono immensi. Oggi i paleoantropologi parlano della vita sulla Terra in termini di evoluzione della vita tecno-organica, che avrebbe coltivato anelli di retroazione positivi tra “intelligenza e biologia, che hanno portato a un’evoluzione accelerata, con la crescente egemonia della vita artificiale su quella naturale intesa come invasione e acquisizione lamarckiana della cosiddetta selezione naturale darwiniana muta e cieca (cfr. Schick e Toth 1993: 315-16). Sta emergendo una nuova mitologia della macchina, che trova espressione nelle attuali affermazioni secondo cui la tecnologia è semplicemente la ricerca della vita con mezzi diversi dalla vita2. Questo dubbio neolamarckismo, che raggiunge l’apice nell’affermazione di Kevin Kelly secondo cui i vantaggi di un’evoluzione di tipo lamarckiano sono così grandi che la natura stessa ha trovato il modo di rendere possibile tale evoluzione, non è solo un’idiozia filosofica ma anche un’ingenuità politica, che poggia su un modello specificamente verticale e perfezionista dell’evoluzione biotecnica. Egli parla costantemente di “ciò che l’evoluzione vuole veramente”, come se fosse pacifico parlare di “evoluzione” in termini di entità globale. Un esempio è la grossolana affermazione: “L’evoluzione scruta quotidianamente il mondo non solo per trovare organismi più adatti, ma per trovare il modo di aumentare le proprie capacità […]. Essa cerca sulla superficie del pianeta il modo di accelerare se stessa, di rendersi più agile, più evolutiva – non perché sia antropomorfa, ma perché l’accelerazione dell’adattamento è il circuito in cui si muove” (Kelly 1994: 361). Questa “ricerca da parte dell’evoluzione”, ci viene detto, ha come risultato che il cervello umano fornisce la “risposta” al problema di come l’evoluzione possa acquisire la complessità necessaria per scrutare il futuro e “dirigere il corso dell’evoluzione”. Nel processo di questo ridicolo antropomorfismo le questioni riguardanti gli usi e gli abusi della vita e della bioingegneria per la vita sono rese completamente prive di interesse, poiché, come avrebbe detto Bergson, “tutto è dato”. In effetti, ciò che accade in questo tipo di rappresentazione dell’evoluzione è una lettura cieca e ottusa delle dinamiche del capitalismo ipercoloniale contemporaneo – l’identificazione di Kelly della velocità con la semplice accelerazione lo illustra – nella meccanica della biosfera, con il risultato di una giustificazione biologica della modernizzazione entropica nella sua veste più imperialistica (la velocità è irresistibile)3. Ci sono altre forze reazionarie in gioco nelle recenti lodi all’ascesa dell’intelligenza artificiale. Come ha sottolineato Baudrillard, dopo aver perso le nostre utopie metafisiche, ora ne costruiamo di profilattiche in cui la nostra immortalità è garantita (potete scaricare il vostro cervello!). Se in passato erano i morti a essere imbalsamati per l’eternità, oggi sono i vivi a subire la stessa sorte, impagliati che ancora respirano in uno stato di sopravvivenza (la vita mi deve il diritto a non morire!) (Baudrillard 1994: 87-8).
Attualmente, nella logica discernibile della post-modernità, stiamo assistendo a una transizione dalle macchine termodinamiche del capitalismo industriale alle macchine cibernetiche delle società informatiche contemporanee, che governano attraverso il controllo intelligente. Ma si tratta ancora di una mutazione all’interno della (post)modernità entropica, in cui lo sviluppo di nuove forze produttive supera i rapporti di produzione esistenti, non garantendo però in alcun modo la loro trasformazione radicale o la liberazione dal controllo sociale e dalla molarizzazione. La società – e “noi” che ne siamo fuori – diventiamo ogni giorno più simili a serpenti. Il “politico” è davvero morto con il crollo dei grandi imperi, compresi i grandi imperi del pensiero (controllo)? Oggi la vita dei grandi imperi ha assunto una forma retrovirale, frammentata e periferica, tramite l’infezione genetica dei loro scarti e sottoprodotti, delle loro cellule fondamentali e le loro brutte escrescenze, non più nell’ordine del politico ma del transpolitico la cui passione, nota Baudrillard, è quella dell’interminabile lavoro di lutto, perso nella malinconia dei sistemi omeopatici e omeostatici, in cui la prova della morte del politico è inammissibile perché reintrodurrebbe un virus fatale nell’immortalità virtuale del transpolitico (Baudrillard 1994: 51). La postmodernità (umana, troppo umana) diffonde il virus della servitù volontaria, una “micro-servitù ecologica, che è ovunque il successore dell’oppressione totalitaria” (e quanto erano verdi quelle valli naziste…). C’è solo il contagio della tecnica e la libertà di diventare impercettibili, invisibili e ignobili (imparate a ringhiare, a scavare e a distorcervi).
________________________________________
L’editore ha effettuato, senza successo, tutte le ricerche necessarie al fine di identificare gli aventi titolo rispetto ai diritti dell’opera. Pertanto resta disponibile ad assolvere le proprie obbligazioni.
- Questa illusione del carattere autonomo dello sviluppo tecnico è esposta in modo istruttivo e “critico” da Habermas (1987: 57s.), il quale sostiene che la “tecnologia” – concepita come controllo razionalizzato scientificamente dei processi oggettivati –- deve essere considerata come un “sistema” in cui la ricerca e la tecnologia sono accoppiate con il feedback dell’economia e della moderna amministrazione sociale. Come uno dei pochi tentativi di sviluppare una politica della tecnologia e una “tecnica democratica”. L’indagine di Habermas rimane appropriata di fronte alla depoliticizzazione contemporanea delle questioni riguardanti la tecnologia e la tecnica. Come nota Habermas, uno dei modi in cui la società capitalistica avanzata “si immunizza dall’impatto deterritorializzante del cambiamento tecnico e dalla potenzialità della libera comunicazione sugli obiettivi dell’attività di vita” è attraverso la depoliticizzazione della massa della popolazione (120). Si veda a questo proposito anche l’utile studio storico di Winner (1977)
- Cfr. Deleuze (1992: 205-6), dove scrive: “La vita non imita la macchina, né si riduce a una costruzione meccanica. È la macchina che in realtà imita la vita. […] Le macchine non sono state costruite per liberare gli uomini da compiti servili. La funzione delle macchine è quella di aumentare il potere della vita stessa, di accrescere la sua capacità di padronanza e di conquista. La macchina non sostituisce in alcun modo la vita”. Questa tesi, cosiddetta postmoderna, sulla macchina è stata colta nella sua portata essenziale da Samuel Butler nel suo saggio dal titolo sorprendente “Darwin tra le macchine” del 1863, dove pone la questione della macchina in termini quasi nietzschiani, come una domanda sul “tipo di creatura” che succederà all’uomo nella supremazia della Terra. La sua opinione conclusiva, non a caso, è che la guerra all’ultimo sangue dovrebbe essere immediatamente proclamata contro di essa”. Cfr. Butler 1914. Ciò che turba Butler è il riconoscimento che, mentre le macchine si sono dimostrate un aspetto indispensabile dell’esistenza umana – “l’anima stessa dell’uomo è dovuta alle macchine; è una cosa fatta a macchina”, scrive – nella futura evoluzione egemonica dell’intelligenza delle macchine l’uomo potrebbe rivelarsi del tutto dispensabile per quanto riguarda i desideri delle macchine (Butler 1985: 207)
- Naturalmente, l’ironia della posizione di Kelly è che parliamo di un maniaco del controllo. La sua opposizione alla selezione naturale si basa sul fatto che essa richiede tempo, tempo che lui non ha, ci dice: “Chi può aspettare un milione di anni?”, scrive (359)