Mimesi e Psicastenia Leggendaria

by / 7 Marzo 2024

Originale: Roger Caillois, «Mimétisme et psychasthénie légendaire », Minotaure, no. 7, 1935

Roger Caillois è una figura particolare del panorama intellettuale del XX secolo. Superato in fama dall’amico e collega Georges Bataille, con il quale fondò il Collège de sociologie a Parigi nel 1937 e con il quale condivise l’esperienza di Acèphale, Caillois è stato un pensatore tentacolare, un fluido che penetrava i pori dei vari domini del sapere alla ricerca di qualcosa di indipendente, anteriore, più elementare di quel sapere. In questo testo, tra biologia, psicologia e mistica – un testo che anticipa la schizoanalisi, ed è di ispirazione a Lacan per lo sviluppo della nozione di stadio dello specchio – Caillois analizza la danza segreta tra le strategie di sopravvivenza e l’immaginazione umana, tra la consistenza del soggetto e lo spazio che lo circonda, i meccanismi di difesa del primo e la voracità dell’ambiente in cui esso si immerge. In un’epoca di così veementi metamorfosi, tra urbanesimo sensoriale, stratificazione delle intelligenze, moltiplicazione degli spazi in cui la soggettività si getta e si crea (universi e metaversi), la riflessione di Caillois torna fondamentale: quale distanza esiste tra il soggetto e il suo ambiente? Esiste una distanza?

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Colui che finge di essere un fantasma finirà col diventarlo davvero.

In definitiva, da qualsiasi angolazione ci si avvicini, la questione che raccoglie fondamentalmente tutte le altre risulta essere quella della distinzione: tra reale e immaginario, tra veglia e sonno, tra ignoranza e conoscenza, e così via. Sono tutte distinzioni, insomma, che qualsiasi progetto accettabile deve cercare di tracciare in modo molto preciso e, allo stesso tempo, insistere per risolverle. Certamente, nessuna distinzione è più marcata di quella che separa un organismo dal suo ambiente; nessuna comporta un senso di separazione più acutamente percepibile. Dovremmo prestare particolare attenzione a questo fenomeno, e più specificamente a quella che dobbiamo ancora chiamare, date le nostre limitate informazioni, la sua patologia (anche se qui il termine ha un significato puramente statistico): vale a dire, l’insieme dei fenomeni denominati mimetismo.

Per molto tempo, e per varie ragioni (spesso non molto valide), ai biologi è piaciuto concentrarsi su questi fatti con ogni sorta di motivazione trasversale. Alcuni hanno cercato di dimostrare il trasformismo, che per fortuna ha altri fondamenti; altri hanno cercato di dimostrare la sapiente provvidenza dell’adorato Dio, la cui benevolenza abbraccia tutta la natura.1

In tali circostanze, è assolutamente necessario un metodo rigoroso. Innanzitutto, questi fenomeni devono essere classificati con grande rigore, perché l’esperienza passata ha dimostrato che sono stati confusi l’uno con l’altro per ogni sorta di ragioni sbagliate. Per quanto possibile, si dovrebbe addirittura adottare una classificazione derivante dai fenomeni stessi piuttosto che dalle loro interpretazioni, che possono essere di parte e che, comunque, sono quasi sempre e in ogni caso controverse. Per questo motivo, citerò le due categorie di Giard – senza però continuare a utilizzarle.2 La prima comprende il mimetismo offensivo, che ha lo scopo di sorprendere la preda, e il mimetismo difensivo, che ha lo scopo di nascondersi da un aggressore (mimetismo di dissimulazione) o di terrorizzarlo con il proprio aspetto ingannevole (mimetismo di spavento). La seconda categoria comprende il mimetismo diretto, quando l’animale che imita ha un interesse immediato a camuffarsi, e il mimetismo indiretto, quando animali di specie diverse mostrano “somiglianze professionali”, per così dire, dovute a qualche adattamento o convergenza comune.3

Si è ipotizzato che un animale innocuo assuma le sembianze di uno temibile al fine di proteggersi. Si pensi, ad esempio, alla farfalla Trochilium e alla vespa Vespa crabro: entrambe hanno le stesse ali fumose, le stesse zampe e antenne marroni, lo stesso addome e torace a strisce gialle e nere, lo stesso modo robusto e rumoroso di volare in pieno giorno. A volte, la creatura mimetica si spinge oltre: un esempio è il bruco Choerocampa elpenor. Questo insetto ha due segni a forma di occhio inanellati di nero sul primo e sul quinto segmento dell’addome; quando viene disturbato, gli anelli anteriori si ritraggono e il quarto anello si gonfia bruscamente. Si pensa che l’effetto in tal modo prodotto sia quello di una testa di serpente in grado di ingannare lucertole e piccoli uccelli, spaventati da questa improvvisa apparizione.4 Secondo Weissmann, quando lo Smerinthus occellata (che, come tutte le falene sfinge, nasconde le ali inferiori in stato di riposo) si trova in pericolo, rivela improvvisamente queste ali, i cui due grandi “occhi” blu su sfondo rosso sorprendono e terrorizzano l’aggressore5.

Con le ali spiegate, la farfalla diventa così la testa di un grande uccello predatore. L’esempio più chiaro di questo tipo è certamente la farfalla Caligo delle foreste brasiliane, che Vignon ha descritto come segue: “C’è una macchia luminosa circondata da un anello palpebrale, poi si sovrappongono anelli circolari di piccole piume radiali irregolarmente colorate, il tutto imitando perfettamente il piumaggio di un gufo, mentre il corpo della farfalla corrisponde al suo becco”.6 La somiglianza è così impressionante che gli abitanti del Brasile inchiodano la farfalla alle porte dei loro fienili come sostituto dell’animale che imita.

È fin troppo chiaro che l’antropomorfismo gioca un ruolo decisivo nei casi precedenti: la somiglianza esiste solo nell’occhio di chi guarda. Il fenomeno oggettivo è il fascino stesso. Lo dimostra, in particolare, lo Smerinthus ocellata, che non ha affatto l’aspetto di un animale pericoloso. Solo i segni a forma di occhio entrano in gioco: il comportamento degli abitanti nativi del Brasile non fa che confermare questa opinione. Gli “occhi” del Caligo vanno probabilmente messi in relazione con l’Oculus indiviosus apotropaico, lo sguardo malefico che non solo danneggia ma può anche proteggere una volta rivolta contro le potenze maligne a cui naturalmente appartiene, come organo di fascinazione per eccellenza.7

In questo caso l’obiezione antropomorfica non regge, perché l’occhio è il veicolo del fascino in tutto il regno animale. Per quanto riguarda la pretesa tendenziosa di somiglianza, invece, l’obiezione è decisiva; inoltre, anche dal punto di vista umano, nessuna somiglianza in questo gruppo è pienamente conclusiva.

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Esistono molti esempi di adattamento di una forma a un’altra (omomorfia). Le calappae assomigliano a ciottoli arrotolati, le chlamydes a semi, i monas a ghiaia e i palea a relitti marini. Il pesce Phyllopteryx, proveniente dal Mar dei Sargassi, non è altro che una sorta di “alga a brandelli a forma di strisce galleggianti”, come l’Antennarius e lo Pterophryné.8 Il polpo ritrae i suoi tentacoli, curva il dorso, adatta il suo colore e quindi assomiglia a una roccia. Le ali inferiori verdi e bianche del pieride alba simulano le ombrellifere, mentre le ammaccature, i noduli e le striature della lichmea simbiotica lo fanno apparire identico alla corteccia dell’albero popolare su cui vive.

Il Lithinus nigrocristinus del Madagascar e i Flatoides sono indistinguibili dai licheni.9 Il mimetismo dei Mantidae si spinge molto in là: con le zampe che simulano i petali o che si arricciano a corolla, sembrano fiori e imitano l’effetto del vento su queste piante con un leggero ondeggiamento meccanico.10 La Cilix compressa assomiglia a un escremento di uccello e il Cerodeylus laceratus del Borneo, con le sue escrescenze foliacee verde oliva chiaro, sembra un bastoncino ricoperto di muschio. Tutti conoscono i Phyllidae, molto simili a foglie, che tendono all’omomorfia perfetta di alcune farfalle. Soprattutto l’Oxydia (cfr. Eléments di Rabaud, 112, fig. 54), che si attacca perpendicolarmente all’estremità di un ramo e ripiega le ali superiori a mo’ di tetto, somigliando così a una foglia più esterna – il tutto è esaltato da una sottile linea scura che attraversa le quattro ali in modo da simulare la vena maggiore della foglia.

Altre specie sono ancora più perfezionate: le loro ali inferiori sono dotate di un’appendice sciolta che utilizzano come peduncolo fogliare, ottenendo così “una sorta di accesso al regno vegetale”.11 Insieme, le due ali su ciascun lato formano l’ovale lanceolato caratteristico della foglia; ancora una volta, un segno sostituisce la vena mediana, anche se in questo caso la macchia è longitudinale e si estende da un’ala all’altra. Così, “la forza organo-motiva … deve aver abilmente ritagliato e disposto ciascuna delle ali, poiché crea una forma non definita in modo indipendente, ma piuttosto in connessione con l’altra ala”.12 I principali esempi di questo fenomeno sono la Coenophlebia archidona dell’America centrale13 e i diversi tipi di Kallima dell’India e della Malesia – che dovrebbero essere studiati più in dettaglio. Seguendo la disposizione sopra descritta, la parte inferiore delle ali copia la foglia del loro luogo di atterraggio preferito, il Nephelium longanum. Inoltre, secondo un naturalista assunto a Giava dalla casa Kirby and Company di Londra per il commercio di queste farfalle, ognuna delle diverse varietà di Kallima (Kallima inachis, Kallima parallecta) frequenta un particolare tipo di arbusto a cui assomiglia maggiormente.14 L’imitazione mostrata da queste farfalle è elaborata nei minimi dettagli: le loro ali hanno effettivamente segni grigio-verdi che simulano la muffa dei licheni. Presentano anche zone luccicanti che le fanno assomigliare a foglie triturate e perforate; hanno persino “macchie di muffa di tipo sphaeriacee sparse sulle foglie di queste piante: tutto, anche le cicatrici trasparenti fatte dagli insetti fitofagi, che mettono a nudo l’epidermide traslucida mentre divorano lembi del parenchima delle foglie”. Le imitazioni sono prodotte da marcature perlacee che corrispondono a marcature simili sulla superficie superiore delle ali”.15

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Questi casi estremi hanno ispirato numerosi tentativi di spiegazione, anche se va detto che nessuno è del tutto adeguato. Anche il meccanismo del fenomeno non è stato chiarito. Naturalmente, possiamo notare con E. L. Bouvier che sono le aggiunte ornamentali a far divergere le specie mimetiche dai tipi normali: “le espansioni laterali del corpo e delle appendici nei Phyllidae; le ali superiori scolpite nei Flatoides; le escrescenze protuberanti su molti bruchi di falena geometra, ecc.”16 Ma questo è un singolare uso improprio della parola “ornamento”; soprattutto, descrive più di quanto spieghi. Per quanto riguarda l’idea del preadattamento (la teoria secondo cui gli insetti cercano ambienti che si armonizzano con i primi stadi della loro colorazione dominante, oppure si adattano agli oggetti a cui assomigliano di più), essa è inadeguata di fronte a fenomeni di tale portata. Le argomentazioni che ricorrono al caso, anche nel modo perspicace di Cuénot, sono ancora più inadeguate. Cuénot considera innanzitutto il caso di alcuni Phyllidae di Giava e Ceylon (Ph. siccifolium e Ph. pulchrifolium). Il loro habitat preferito è l’albero di guava, alle cui foglie assomigliano per via del restringimento subterminale dell’addome. Eppure, l’albero di guava non è una pianta nativa, ma è stato importato dall’America. Quindi, se questo esempio comporta una somiglianza, è per caso. Non preoccupato dalla natura eccezionale – anzi, unica – di questo evento, Cuénot suggerisce che la somiglianza della farfalla Kallima è ugualmente prodotta dal caso; che deriva dalla pura e semplice accumulazione di alcuni fattori che si trovano singolarmente in specie non mimetiche, dove sono insignificanti (un’appendice a forma di gambo di foglia, ali superiori lanceolate, una vena mediana, aree trasparenti e specchi): “La somiglianza è quindi ottenuta attraverso la combinazione di un certo numero di piccoli dettagli. Questi sono tutti abbastanza insignificanti e sono presenti singolarmente nelle specie vicine; tuttavia, se combinati, producono una straordinaria imitazione di una foglia secca. Il successo di questa imitazione dipende dai singoli insetti, che sono tutti radicalmente diversi. […] Questa combinazione è uguale a qualsiasi altra; è sorprendente solo perché assomiglia a un oggetto particolare”.17 Secondo lo stesso autore, anche il bruco della falena geometra Urapteryx samqucaria è una combinazione uguale a tutte le altre, che unisce una postura atipica, un colore particolare della pelle, una rugosità tegumentaria e l’istinto di vivere su determinate piante. Ma è proprio questo il punto. È difficile credere che tali combinazioni siano uguali a tutte le altre, perché questi dettagli potrebbero essere tutti riuniti senza diventare assemblati, senza lavorare insieme verso una qualche somiglianza specifica. Non è la semplice presenza di questi elementi a essere inquietante e decisiva; è il fatto della loro reciproca disposizione, della loro reciproca mappatura.

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In queste circostanze, è meglio adottare un’ipotesi azzardata che si potrebbe trarre da un’osservazione di Le Dantec, che solleva la possibilità che certi funzionamenti degli organi cutanei degli antenati dei Kallima abbiano permesso loro di simulare le macchie delle foglie.18 Il meccanismo imitativo sarebbe scomparso dopo l’acquisizione del tratto morfologico (in questo caso, non appena raggiunta la somiglianza), in accordo, quindi, con la stessa legge di Lamarck. Il mimetismo morfologico potrebbe allora essere una vera e propria fotografia, alla maniera del mimetismo cromatico, ma una fotografia di forma e di rilievo, nell’ordine degli oggetti e non delle immagini; una riproduzione tridimensionale con volume e profondità: una scultura-fotografia, o meglio ancora una teleplastia, se la parola viene spogliata di ogni contenuto psichico.

Alcune ragioni più immediate (e meno esposte all’accusa di sofisma) ci impediscono di considerare il mimetismo come una reazione difensiva. In primo luogo, questa protezione servirebbe solo contro i carnivori che cacciano con la vista e non con l’olfatto, come spesso accade. Inoltre, i carnivori di solito non si preoccupano delle prede immobili. L’immobilità costituirebbe quindi una difesa migliore in questi casi.

In effetti, gli insetti non mancano di ricorrere al finto rigor mortis (e anzi ne fanno grande uso).19 Esistono anche altri metodi. Per rendersi invisibile, una farfalla può semplicemente utilizzare la tattica della Satyrid asiaticus, le cui ali laccate a riposo formano un’unica linea quasi priva di spessore, impercettibile e perpendicolare al fiore su cui atterra; la linea ruota con l’osservatore, che percepisce così solo questa superficie minima.20 Gli esperimenti di Judd e Foucher hanno risolto definitivamente la questione.21 I predatori non sono affatto ingannati né dall’omomorfia né dall’omocromia: si nutrono di acridi che si confondono con il fogliame delle querce, o di tonchi che assomigliano a minuscoli sassolini, del tutto invisibili all’occhio nudo dell’uomo. Il fasmide Carausius morosus (che utilizza la sua forma, il suo colore e la sua postura per simulare un ramoscello di pianta) non può essere tenuto all’aperto perché i passeri lo scoprono e lo divorano immediatamente. In generale, nello stomaco dei predatori si trovano numerosi resti di insetti mimetici. Non deve quindi sorprendere che questi insetti abbiano talvolta altri mezzi di protezione più efficaci. Al contrario, alcune specie non commestibili (che quindi non hanno nulla da temere) sono mimetiche. Sembra quindi che si debba concludere con Cuénot che si tratta di un “epifenomeno”, la cui “utilità come forma di difesa sembra essere nulla”.22 Delage e Goldsmith avevano già notato un “numero eccessivamente elevato di caratteristiche protettive” nei Kallima23.

Siamo quindi di fronte a un lusso e persino a un lusso pericoloso, poiché accade che il mimetismo faccia peggiorare le condizioni della creatura mimetica: i bruchi di falena geometra simulano così perfettamente i germogli degli arbusti che gli orticoltori li potano con le cesoie.24 Il caso dei Phyllidae è ancora più miserabile. Si pascono l’un l’altro, scambiando letteralmente gli altri Phyllidae per vere foglie.25 Pertanto, ciò potrebbe essere consideato quasi come una sorta di masochismo collettivo che culmina nell’omofagia reciproca, con l’imitazione della foglia che funge da incitamento al cannibalismo in questo particolare tipo di banchetto totemico. Tale interpretazione è meno gratuita di quanto possa sembrare. In effetti, nell’uomo sembrano sussistere alcune potenzialità che corrispondono stranamente a questi fenomeni. Anche lasciando da parte la questione del totemismo, che sarebbe troppo azzardato affrontare da questo punto di vista, rimane il vasto dominio della magia mimetica, secondo la quale il simile produce il simile, e che è più o meno alla base di ogni pratica incantatoria. Sarebbe inutile ripercorrere tutti i fatti; sono stati ordinati e classificati nelle opere classiche di Tylor, Hubert e Mauss, e Frazer. Tuttavia, va menzionato un punto importante: la corrispondenza messa in luce con successo da questi autori tra i principi della magia e quelli che regolano l’associazione delle idee. La legge della magia, le cose che si sono toccate una volta rimangono unite, corrisponde al principio di associazione per contiguità, così come il principio di associazione per somiglianza corrisponde esattamente all’attractio similium della magia: Il simile produce il simile.26 Quindi, principi identici regolano, da un lato, l’associazione soggettiva delle idee e, dall’altro, l’associazione oggettiva dei fenomeni; cioè, da un lato, i legami casuali o presunti tali tra le idee e, dall’altro, i legami causali tra i fenomeni.27

Il punto cruciale è che l’uomo “primitivo” ha ancora un’impellente inclinazione all’imitazione, unita a una credenza nella imitazione, unita ancora alla convinzione dell’efficacia di questa imitazione. Tale inclinazione rimane piuttosto forte nell’uomo “civilizzato”, poiché persiste come uno dei due processi con cui il pensiero segue il suo corso quando è lasciato a se stesso. Per non complicare troppo la questione, tralascio il quesito generale della somiglianza, che è ben lungi dall’essere spiegata e svolge un ruolo a volte cruciale nella vita emotiva e nell’estetica, dove viene definita corrispondenza.

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Questa tendenza, la cui universalità diventa quindi difficile da negare, potrebbe essere stata la forza determinante dell’attuale morfologia degli insetti mimetici, in un’epoca in cui il loro corpo era più plastico di quanto non lo sia oggi (come dobbiamo comunque supporre, dato il trasformismo). Il mimetismo potrebbe quindi essere definito con precisione come un incantamento congelato al suo apice e che ha catturato lo stregone nella sua stessa trappola. Che non si dica che è pura follia attribuire la magia agli insetti: questo uso inedito dei termini non deve nascondere l’assoluta semplicità della questione stessa. Prestigio-magia e fascinazione: come chiamare altrimenti i fenomeni che sono stati raggruppati sotto la categoria stessa del mimetismo? (Come già detto, sono stati di imprecisa classificazione perché, a mio avviso, le somiglianze percepite possono essere ridotte troppo facilmente all’antropomorfismo; tuttavia, al netto di questi casi controversi e nella loro nuda essenzialità, tali fenomeni – o almeno le loro fasi iniziali – sono certamente analoghi al mimetismo vero e proprio). Ho già offerto alcuni esempi di tali fenomeni (lo Smerinthus ocellata, il Caligo e il bruco Choerocampa elpenor), che sono estensivamente illustrati anche dall’improvvisa rivelazione degli ocelli da parte della mantide quando si trova in posizione spettrale e cerca di paralizzare la preda. In ogni caso, il ricorso all’affermazione esplicativa secondo cui la magia tende sempre a cercare la somiglianza ci fornisce solo una prima approssimazione, poiché anche questa deve essere spiegata a sua volta. La ricerca della somiglianza si presenta come un mezzo, se non come un intermediario. Sembra che l’obiettivo sia proprio quello di assimilarsi all’ambiente. A questo proposito, l’istinto completa l’opera della morfologia: la Kallima si allinea simmetricamente a una foglia vera, con l’appendice alare inferiore nel punto che occuperebbe un vero picciolo di foglia. L’Oxydia si allinea perpendicolarmente alla punta di un ramo, perché i segni che imitano la vena mediana glielo impongono. Le farfalle brasiliane Cholia si posano in fila su piccoli steli in modo da formare campanule come quelle dei rametti di mughetto, per esempio.28

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Si tratta quindi di un vero e proprio richiamo dello spazio. Inoltre, altri fenomeni operano per lo stesso scopo, come i cosiddetti rivestimenti protettivi. Le larve di mosca si costruiscono una guaina con rametti e ghiaia e le larve di crisomelide usano i propri escrementi allo stesso modo. I granchi ossirinchi o i ragni di mare raccolgono casualmente alghe e polipi dai loro habitat e li piantano sul loro guscio. “Il travestimento sembra essere un gesto puramente automatico”, poiché si vestono con tutto ciò che capita, anche con gli oggetti più vistosi (cfr. gli esperimenti di Hermann Fol, 1886).29 Inoltre, questo comportamento richiede la visione, poiché non si verifica né di notte né dopo che i peduncoli oculari sono stati rimossi (esperimenti di Aurivillius, 1889) – il che suggerisce ancora una volta che si tratta di un disturbo della percezione spaziale. Un disturbo della percezione spaziale. In breve, una volta stabilito che il mimetismo non può essere un meccanismo di difesa, l’unica cosa che può essere è un disturbo della percezione spaziale. La percezione dello spazio è certamente un fenomeno complesso, poiché è impossibile dissociarla dalla rappresentazione spaziale. In questo senso, lo spazio è un doppio diedro che cambia continuamente dimensione e posizione:30 è un diedro di azione, con un piano orizzontale determinato dal terreno e un piano verticale determinato dalla persona che cammina e che quindi trascina il diedro allo stesso tempo; ed è anche un diedro di rappresentazione, formato dallo stesso piano orizzontale di prima (che però è rappresentato, anziché percepito) e tagliato da un piano verticale proprio dove l’oggetto appare in lontananza. La questione diventa critica con lo spazio rappresentato perché l’essere vivente, l’organismo, non si trova più all’origine del sistema di coordinate, ma è semplicemente un punto tra i tanti. Spogliato del suo privilegio, non sa letteralmente più cosa fare di se stesso. Questo richiama chiaramente aspetti cruciali della prospettiva scientifica;31 infatti, è degno di nota il fatto che la scienza moderna abbia prodotto un numero crescente di spazi rappresentati proprio in questo modo: spazi di Finsler, iperspazi di Riemann-Christoffel, spazi astratti, spazi generalizzati, aperti, chiusi, densi, radi, e così via. In queste condizioni, il senso della personalità (come consapevolezza della distinzione tra organismo e ambiente e della connessione tra la mente e uno specifico punto nello spazio) viene rapidamente e seriamente minato. Si entra così nel campo della psicologia psicastenica o, più specificamente, della psicastenia leggendaria, se così vogliamo definire il disturbo del rapporto tra personalità e spazio sopra delineato.

Nel presente saggio posso offrire solo un’indagine sommaria della questione; d’altronde, le opere cliniche e teoriche di Pierre Janet sono facilmente accessibili a tutti. Per ora presenterò soprattutto una breve descrizione di alcune esperienze personali, che peraltro concordano pienamente con i risultati pubblicati nella letteratura medica: ad esempio, il fatto che quando si chiede loro dove si trovano, gli schizofrenici rispondono invariabilmente: “So dove sono, ma non sento di essere dove sono32. Per menti diseredate come queste, lo spazio sembra costituire una volontà di divoramento. Lo spazio li insegue, li intrappola e li digerisce in un enorme processo di fagocitosi. Poi, alla fine, prende il loro posto. Il corpo e la mente si dissociano; il soggetto oltrepassa il confine della propria pelle e si pone al di fuori dei propri sensi. Cerca di vedere se stesso, da un punto dello spazio. Sente che si sta trasformando lui stesso in spazio, uno spazio oscuro in cui le cose non possono essere inserite. È simile; non a qualcosa in particolare, ma semplicemente simile. E sogna spazi che lo “possiedono spasmodicamente”. Queste espressioni mettono in luce un unico processo: la depersonalizzazione attraverso l’assimilazione allo spazio.33 Proprio ciò che il mimetismo determina morfologicamente in alcune specie animali. Anche l’ascendente magico (come si può davvero chiamare senza un abuso lessicale) della notte e del buio, la paura dell’oscurità derivano probabilmente dalla minaccia che essi rappresentano per l’opposizione organismo/ambiente. Le analisi di Minkowski sono preziose a questo proposito: il buio non è la semplice assenza di luce, ma ha una qualità positiva. Mentre lo spazio luminoso scompare, lasciando il posto alla concretezza materiale degli oggetti, l’oscurità è “spessa”; tocca direttamente la persona, la avvolge, la penetra e la attraversa. Così “il sè è permeabile al buio ma non alla luce”; la sensazione di mistero che proviamo di notte deriva probabilmente da questo. Anche Minkowski arriva a parlare dello spazio oscuro e di quella che è una quasi assenza di distinzione tra ambiente e organismo: “Poiché lo spazio oscuro mi avvolge da tutti i lati e mi penetra molto più profondamente di quanto non faccia lo spazio luminoso, il ruolo svolto dalla distinzione interno/esterno e quindi anche dagli organi sensoriali (nella misura in cui consentono la percezione esterna) è del tutto minimo “34.

Questa assimilazione allo spazio è inevitabilmente accompagnata da una diminuzione del senso di personalità e vitalità. In ogni caso, è da notare che tra le specie mimetiche il fenomeno si verifica in un’unica direzione: l’animale imita la vita vegetale (sia essa foglia, fiore o spina) e nasconde o rinuncia a quelle funzioni fisiologiche che lo legano all’ambiente.35 La vita si ritira in uno stato inferiore. A volte l’identificazione è più che superficiale: le uova dei fasmidi assomigliano ai semi non solo per la forma e il colore, ma anche per la struttura biologica interna.36 Inoltre, le posture catalettiche spesso favoriscono l’integrazione dell’insetto nell’altro regno. I curculionidi restano immobili; i fasmidi bacillari lasciano penzolare le loro lunghe zampe – per non parlare della rigidità verticale dei bruchi di falena geometra, che inevitabilmente evoca contrazioni isteriche.37 Al contrario, l’ondeggiare meccanico delle mantidi non sembra forse un tic?

In ambito letterario, Gustave Flaubert, tra gli altri, sembra aver colto il significato di questo fenomeno, poiché La Tentation de Saint-Antoine si chiude con la scena di un mimetismo generalizzato a cui lo stesso eremita soccombe: “Ora non c’è più distinzione tra piante e animali. Insetti che assomigliano a petali di rosa adornano lo strofinato di frassino […]. E le piante si sono confuse con le pietre. I ciottoli sembrano cervelli, le stalattiti seni e gli affioramenti di vene di ferro arazzi con disegni decorativi”. Si assiste così alla compenetrazione dei tre regni naturali,

Antonio cade a sua volta preda del fascino dello spazio materiale: vuole disperdersi ovunque, essere dentro ogni cosa, “penetrare in ogni atomo, scendere nel cuore della materia – essere la materia“. Sebbene Flaubert enfatizzi l’aspetto panteistico, addirittura magisteriale, di questa discesa agli inferi, essa appare comunque come una forma di quel processo di generalizzazione dello spazio a scapito dell’individuo, a meno che non si voglia evocare, con linguaggio psicoanalitico, il ritorno a una condizione originaria di insensatezza e di incoscienza prenatale – una mera questione terminologica.

Uno sguardo all’ambito artistico rivela esempi di fenomeni simili. Per esempio, ci sono gli straordinari motivi della decorazione popolare slovacca, che potrebbero rappresentare ugualmente fiori con le ali o uccelli con i petali. E ci sono i dipinti di Salvador Dalì del 1930 circa. Checché ne dica l’artista, questi uomini, donne addormentate, cavalli e leoni (tutti invisibili) non derivano tanto da ambiguità paranoiche e significati multipli, quanto dall’assimilazione mimetica di esseri animati nel regno inanimato.38

È innegabile che alcuni dei resoconti precedenti sono ben lontani dall’offrire una certezza assoluta. Potrebbe persino sembrare riprovevole paragonare realtà così diverse come la morfologia esterna di alcuni insetti (nel caso dell’omomorfismo) con il comportamento effettivo di persone appartenenti a un determinato tipo di civiltà che possono avere una specifica modalità di pensiero (nel caso della magia mimetica) e con i bisogni psicologici fondamentali di persone la cui civiltà e modalità di pensiero differiscono radicalmente dalla loro (nel caso della psicastenia). Tuttavia, ritengo che il confronto tra eventi così diversi non solo sia legittimo (dopo tutto, è difficile condannare la biologia comparata), ma anche indispensabile quando si affronta l’oscuro regno delle determinazioni inconsce. Inoltre, la soluzione che ho proposto non ha nulla che possa allarmare una mente rigorosa. Suggerisce semplicemente che, accanto all’istinto di autoconservazione che in qualche modo attrae gli esseri verso la vita, esiste un istinto di abbandono molto diffuso che li attrae verso una sorta di esistenza ridotta; nel suo stato più estremo, questo sarebbe privo di qualsiasi grado di coscienza o sentimento. Mi riferisco, per così dire, all’inerzia dell’élan vital.

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È in questa prospettiva che può essere accettabile trovare un’origine comune sia ai fenomeni mimetici – biologici e magici39 – sia all’esperienza psicastenica, come del resto sembrano dettare i fatti. Tale origine è il richiamo dello spazio, che è altrettanto elementare e meccanico dell’atropismo. Sotto la sua influenza la vita sembra perdere terreno, la linea di demarcazione tra l’organismo e l’ambiente sfuma mentre si allontana, respingendo così in egual misura i limiti entro i quali possiamo renderci conto, come dovremmo, secondo Pitagora, che la natura è ovunque la stessa.40

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  1. A. R. Wallace, Darwinism (1889); L. Murat, Les Merveilles du monde animal (1914).
  2. Giard, “Sur el mimétisme et al resemblance protectrice,” Arch. de Zool. exp. et gén. (1972) e Bull. Scient. 20 (1888).
  3. See also F. Le Dantec, Lamarckiens et Darwiniens, terza ed. (Paris, 1908), 120 e seguenti.
  4. Cuénot, La Genèse des espèces animales (Paris, 1911), 470-473.
  5. Weissmann, Vorträge über Descendenztheorie, 1: 78-79. Questa terrificante trasformazione è automatica. Può essere paragonata ai riflessi cutanei, che non sempre producono un cambiamento di colore destinato a nascondere l’animale, ma a volte finiscono per dargli un aspetto terrificante. Il pelo di un gatto si irrita alla vista di un cane e, poiché è terrorizzato, diventa terrificante. Le Dantec, che fa questa osservazione (Lamarckiens, 139), la utilizza per spiegare il fenomeno umano chiamato pelle d’oca, che si verifica soprattutto nei momenti di grande spavento. Questo fenomeno si è mantenuto, anche se l’atrofia del sistema pilifero lo ha reso obsoleto.
  6. P. Vignon, Sur le matérialisme scientifique ou mécanisme anti-téléologique (Revue de philosophie, 1904), 562. Cfr. Giard, Traité d’entomologie, 3: 201; A. Janet, Les Papillons (Paris, 1902), 331-336.
  7. Sul malocchio e sugli animali che usano la fascinazione, riferirsi al lavoro più conosciouto di Seligman, Der böse Blick und Verwandtes (Berlin, 1010) especially 2: 469. On the apotropaic use of the eve, see P. Perdrizet, Negotium perambulans in tenebris (Publ. de la Fac. de Lettres de Strasbourg, fasc. 6, Strasbourg, 1992).
  8. Murat, Les Merveilles, 37-38; Cuénot, La Genese, 453.
  9. Cuénot, fig. 114.
  10. Riferirsi anche a Roger Caillois, “La Mante religieuse,” Minotaure, no.s (1934): 26.
  11. Vignon, Sur le matérialisme scientifique.
  12. Ibid.
  13. Delage and Goldsmith, Les Théories de l’évolution (Paris, 1909), 74, fig. 1
  14. Murat, Les Merveilles, 30.
  15. R. Perrier, Cours de zoologie, quinta ed. (Paris, 1912); citato in Murat, Les Merveilles, 27-28.
  16. Bouvier, 146.
  17. Cuénot, La Genèse, 464. Nell’edizione più recente della sua opera (1932), Cuénot non mette in dubbio che questo accumulo di piccoli dettagli possa essere diretto da un “fattore sconosciuto”, ma continua a considerare il caso come l’ipotesi più probabile (252-253).
  18. Le Dantec, Lamarckiens, 143.
  19. Cuénot, La Genèse, 461.
  20. Murat, Les Merveilles, 46.
  21. ”Judd, The Efficiency of Some Protective Adaptations in Securing Insects from Birds.” The American Naturalist 33 (1899); 461; Foucher, Bull. soc. nat. acclim. (Fr. 1916).
  22. Cuénot, La Genèse, 463. Sull’efficacia del mimetismo, cfr. Davenport, “Elimination of Self-Colored Birds.” Nature 78 (1898): 101; Doflein, “Uber Schutzanpassung durch Achnlichkeit,” Biol. Centr. 28 (1908): 243; Pritchett, “Some Experiments in Feeding Lizards with Protectively Coloured Insects,” Biol. Bull. 5 (1903): 271. Cfr. anche la bibliografia di Cuénot in La Genese, 467.
  23. Delage and Goldsmith, Les Théories de l’évolution, 74.
  24. Murat, Les Merveilles, 36.
  25. Murat: Bouvier, 142-143.
  26. Naturalmente, la stessa corrispondenza esiste tra l’associazione degli opposti e la legge della magia: gli opposti agiscono sugli opposti. In entrambi i campi, è facile ridurre questo caso a uno di similitudine.
  27. See H. Hubert and M. Mauss, “Esquisse d’une théorie générale de la magie,” Année sociologique (Paris, 1904), 7:61-73.
  28. Murat, Les Merveilles, 37.
  29. Bouvier, 147-151. La stessa conclusione vale per gli insetti: “Gli insetti che si camuffano hanno bisogno del contatto di corpi estranei, e poco importa il tipo di corpo che produce il contatto” (151).
  30. Cfr. anche L. Lavelle, La Perception visuelle de la profondeur (Strasbourg, 1921), 13.
  31. Si potrebbe quasi affermare che, per la scienza, non esista altro che l’ambiente.
  32. E. Minkowski, “Le Problème du temps en psychopathologie,” Recherches philosophiques (1932-33): 239.
  33. Le espressioni sono tratte da appunti introspettivi presi durante un attacco di “psicastenia leggendaria”, volutamente esacerbata per motivi ascetici e interpretativi.
  34. E. Minkowski, “Le temps vécu,” in Etudes phénoménologiques et psychopathologiques, (Paris, 1933), 382-398: la questione relativa alle allucinazioni e al problema dello spazio.
  35. Abbiamo visto perché era opportuno rifiutare i casi in cui un animale imitava un altro animale: le somiglianze non erano chiaramente e oggettivamente stabilite e i fenomeni riguardavano la prestigio-fascinazione piuttosto che il mimetismo.
  36. Per le Phyllidae, riferirsi al lavoro svolto da Hennegay (1885).
  37. Bouvier, 143.
  38. Salvador Dali, La Femme visible (Paris, 1930), 15.
  39. Questo parallelo appare giustificato se si considera che un istinto è prodotto da una necessità biologica. Oppure, in mancanza di ciò, la stessa necessità fornisce un tipo di immaginazione in grado di ricoprire lo stesso ruolo, cioè di innescare un comportamento simile nel soggetto.
  40. In questa rapida rassegna, ho dovuto tralasciare alcune questioni correlate, come la colorazione obliterante e la colorazione flash (si veda anche Cuénot, La genèse des espèces animales, terza ed., 1932). Ho anche omesso diverse discussioni di interesse scientifico, come ad esempio la connessione tra l’istinto di rinuncia, come lo definisco io, e l’istinto di morte definito dagli psicoanalisti. Soprattutto, ho dovuto limitare i miei esempi. Ma a questo proposito basti fare riferimento alle pagine eclatanti e turbolente dell’Introduction à la biologie expérimentale di P. Vignon (Paris, 1930, Encycl. Biol, 8: 310-459) e alle numerose illustrazioni che le accompagnano. Il lettore sarà particolarmente interessato alla sezione sul mimetismo dei caterpillar (362 e segg.), delle mantidi (374 e segg.) e delle cavallette fogliare (Pterochrozes) dell’America tropicale (422-450). L’autore dimostra che il mimetismo è in ogni caso un meccanismo di difesa, ma supera di gran lunga il suo obiettivo: è “ipertelico”. Conclude quindi che si tratta di un’attività infracosciente (lo si può seguire fino a questa implicazione), che persegue un obiettivo strettamente estetico, decorativo: “questo è elegante, quello è bello” (400). Non c’è quasi bisogno di contestare questo antropomorfismo. In ogni caso, non ho nulla contro il tentativo di ridurre l’istinto estetico alla tendenza a trasformarsi in un oggetto o in uno spazio. Ma è davvero questo l’intento di M. Vignon?
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