One of these Sounds is Not like the Others, One of these Sounds doesn’t Belong

Considerazioni su “The Great Psychic Outdoors, Lo-Fi Music and Escaping Capitalism” di Enrico Monacelli

by / 5 Giugno 2023


Every time I get the inspiration
To go change things around
No one wants to help me look for places 

Where new things might be found.
– The Beach Boys

C’è una tensione latente che attraversa gran parte degli scritti di Mark Fisher e che trova nell’introduzione all’incompiuto Comunismo acido la sua ultima formulazione: non bisogna provare a sconfiggere il capitale, ma spingere lo sguardo oltre e scorgere quali sono le pratiche che il suo velo cerca di offuscare. Fisher individua nella “capacità di produrre, di prenderci cura di cose e persone e di godere collettivamente” — quindi nella ricchezza comune che il capitale è incapace di generare — l’oggetto della nostra necessaria e impellente ricerca. Le considerazioni di Fisher nascono dalla lettura dell’Uomo a una dimensione di Marcuse: per quanto la stretta relazione tra arte e protesta verso lo status quo proposta da quest’ultimo abbia assunto nel dibattito pubblico una forma di romanticismo irrilevante e antiquata, secondo Fisher è importante soffermarsi sulle variabili che questa equazione mette in gioco. Il Grande Rifiuto di cui la dimensione artistica si fa portavoce si configura come la protesta definitiva contro ciò che è: un rifiuto che canalizza i flussi provenienti da uno spazio secondo — “una ‘dimensione estetica’ radicalmente incompatibile con la vita quotidiana sotto il capitalismo” — e trascina con sé i materiali per immaginare un mondo al di là del capitale. 

Una delle questioni che più preoccupava Marcuse era la possibile volgarizzazione delle avanguardie, non tanto in nome di una purezza dell’arte messa a rischio dalla sua democratizzazione, ma a causa della sua possibile contaminazione con gli spazi rigorosamente amministrati dal capitalismo: l’assimilazione dell’arte da parte del capitale avrebbe dissimulato l’incompatibilità tra queste due sfere, azzerando le potenzialità latenti del Grande Rifiuto. Secondo Fisher, per la controcultura degli anni Settanta “la cultura di massa, e quella musicale in particolare, costituiva in realtà un terreno di lotta, non un dominio del capitale. I rapporti tra forme estetiche e politica erano instabili e in divenire: le forme estetiche non ‘esprimevano’ semplicemente una realtà capitalistica preesistente, ma la precorrevano e anzi generavano nuove possibilità”. Come attualizzare queste riflessioni? Come riportare alla luce il cuore politico che pulsa all’interno del discorso musicale? Come muoversi al di fuori del capitale, come fuggire da una dimensione che si auto-alimenta per assimilazione indifferenziata?

Enrico Monacelli, in The Great Psychic Outdoors, Lo-Fi Music and Escaping Capitalism (Repeater, 2023) ci indica una delle vie percorribili: la musica lo-fi. Monacelli realizza un’alchimia di incastri: gli artisti — a cui è dedicato un capitolo ciascuno — sono posti al centro di una narrazione polifonica; il loro vissuto, la loro musica e le loro parole sono illuminati da una prospettiva decentrata in grado di proiettare ombre di significati inediti. Brian Wilson e Mark Fisher, R. Stevie Moore e Guy Debord, Daniel Johnston e Marcuse, le Marine Girls e Gilles Deleuze, Perfume Genius e Andrea Dworking, sono solo alcuni degli accostamenti che danno forma a The Great Psychic Outdoors (TGPO, d’ora in poi): strumenti concettuali di un discorso che oscilla in maniera continua e improvvisa tra il musicale e il politico, tra la teoria e la prassi, tra la critica e l’ascolto.

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Félix Guattari, nella chiusura della sua intervista che prende il nome di The Adolescent Revolution, descrive il rapporto del proprio figlio adolescente con la politica. Il ragazzo non se ne occupa direttamente: non la fa attraverso i discorsi, ma “con il saldatore”. È con la costruzione di free radio che, nel suo caso, il discorso tecnico si connette intimamente a quello politico: intervenire nei meccanismi, lasciare esplodere l’insofferenza verso i media ufficiali, ridefinire la vita comunitaria al di fuori delle modalità di esistenza sancite dallo Stato. È da queste parole, descritte da Monacelli come un’epifania, che il suo discorso prende slancio: la tensione politica alla base della musica lo-fi risiede nella volontà di costruire un mondo nuovo al di là delle logiche del capitale, di hackerare i meccanismi di potere alla base della produzione musicale; “ogni forma di musica lo-fi è analizzabile come un tentativo di fuga, talvolta vittorioso, talvolta no, […] un esercizio di agire artisticamente in maniera differente e concreta”. TGPO agisce esattamente nello stesso modo: quella portata avanti non è una teoria che si attualizza in una pratica, ma una pratica che dispiegandosi si fa teoria; Monacelli ci parla di cavi, di bobine, di nastri, di registratori a otto tracce, di studi di registrazione improvvisati nella propria camera, di cassette, registratori portatili e rumori di fondo — solo dopo, o al contempo, fa teoria. Siamo dentro la macchina, dentro quell’inconscio della musica contemporanea invisibilizzato nella musica hi-fi. È Brian Wilson, leader dei Beach Boys a farsi capostipite inconsapevole della genealogia tracciata dall’autore. TGPO ci chiede di immaginare Brian Wilson, nel mezzo della stesura di Pet Sounds  

Bloccato in studio, febbricitante e circondato da nastri e strumenti strani che producono un milione di suoni, costretto a far girare la macchina dei Beach Boys per sfornare sempre più soldi per la sua etichetta e per l’industria culturale in generale [e che] esausto e sfinito, vorrebbe solo andarsene ed essere felice. Trovare una casa e potersi godere adeguatamente se stesso, le persone che ama e la sua arte.

L’interesse di Brian Wilson per la materialità del suono riflette la radicalità del suo approccio: sabotare la canzone pop, mettere in luce i processi di costruzione dell’oggetto sonoro, mostrare ciò che sta dietro, bloccare “il flusso naturale di registrazione, decostruirne pratiche, convenzioni e utilizzare tutti quegli elementi che prima erano esclusi per creare qualcosa di nuovo e stranamente meraviglioso”. Sovvertire ciò che il discorso musicale è in grado di significare implica la sovversione del modo in cui il suono viene prodotto all’interno dell’industria musicale: per dare una nuova forma al desiderio che si dirama sotto l’egemonia del capitale [1] è necessario riprendere il controllo degli strumenti che lo modellano. La sterminata e caotica produzione di R. Stevie Moore [2], il do-it yourselfer definitivo, nasce da queste premesse: Moore utilizzava il lo-fi come “arma contro l’inumanità della musica pop capitalista”, o ancora “come mezzo per trasfigurare il pop nell’ambiente di un organismo che non è più in grado di adattarsi alle prestazioni competitive richieste per stare bene sotto il dominio [e] non più in grado di tollerare l’aggressività, la brutalità e la bruttezza del modo di vivere stabilito” — un programma estetico e politico. 

Il tema che percorre in maniera sotterranea TGPO è dunque quello del rapporto tra lo-fi e fuga. Fuga dal non-senso capitalista alla ricerca di un bene supremo intuibile attraverso la libera espressione dell’immediatezza implicita al sentire artistico (Daniel Johnston), fuga dalla società patriarcale tramite la deflagrazione dell’alterità oceanica femminile (Marine Girls), fuga dall’inquietudine sessuale verso un’utopia di cura (Perfume Genius); o ancora, fuggire verso l’esterno, modellare i limiti dell’esistenza attraverso il gesto artistico (Phil Elverum), “sfuggire al potere, superarlo, cancellarlo, trasformarlo, compiendo il passaggio radicale da un potere controllante e dominante a un potere abilitante e liberatorio”; fuggire rovinosamente verso l’interno, incorporando l’esterno in una spirale paranoide ed esausta in ripetizione infinita (Ariel Pink). TGPO, per articolarsi nella sua forma discorsiva, si struttura riempiendo i sentieri tracciati dalle proprie premesse — ci sembra il caso di soffermarci su alcune di esse. A rivestire un ruolo fondamentale e condizionante è l’assunzione virniana della “rivoluzione sociale come esodo”. Scrive Monacelli, attraverso Virno: 

La novità di queste forme di lotta era l’apparizione di una “proliferazione del concreto e del diverso all’interno del lavoro socializzato”, un’esplosione che “richiede una costellazione di concetti materialistici che si distaccano totalmente da quell’universalità caratteristica dell’ “equivalente generale” e che non vengono utilizzati come basi o elementi di sintesi per i processi effettivi di liberazione.

Ciò che si innesta alla base di TGPO è dunque la preminenza del concreto; fare le cose concretamente, in modo differente da quello comunemente accettato, è una via che conduce all’emancipazione. La fuga si configura in questo modo come un “ritiro impegnato”; fare le cose diversamente equivale a mettere in discussione la struttura di produzione di merci e desideri e, dunque, a fare del mondo un piano di sperimentazione. Per questo il DIY e l’autoproduzione permettono di mettere in discussione il modo in cui la musica viene prodotta, “in quali condizioni e persino il modo in cui quella stessa musica viene valutata e monetizzata”. La seconda premessa riguarda il metodo: quello proposto da Monacelli non è un canone, o una storia del lo-fi, ma una genealogia. Con Foucault, in TGPO la genealogia si costituisce attraverso la ricerca dei punti di rottura [3] in grado di consentire l’irruzione del nuovo: un percorso “non lineare e dirompente” che lascia emergere in maniera discontinua l’eccezione — ciò che eccede — e l’irriducibilità reciproca degli artisti coinvolti. Come detto, oltre che alle preferenze dell’autore, il filo che li lega è una sorta di diffusa fascinazione per l’altrove, una povertà sonora che li connette indissolubilmente a quell’“interzona selvaggia” costruita nel cuore della musica contemporanea. Infine, secondo Pynchon, “il luogo di nascita dell’indicibile e del miracoloso” è cristallizzato nell’atto di rompere le macchine: è qui che “le cose che non dovrebbero esserci e che ci spaventano” prendono vita — ed è qui che Monacelli ci propone di iniziare la nostra ricerca. 

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Dopo i ringraziamenti — dopo un’altra mezza pagina di silenzio bianco — TGPO si chiude definitivamente con un frammento tratto da Remarks on Marx, che già Mark Fisher utilizzava nel suo A social and psychic revolution of almost inconceivable magnitude: Popular Culture’s Interrupted Accelerationist Dreams

Il problema non è recuperare la nostra identità “perduta”, liberare la nostra natura imprigionata, la nostra verità più profonda; il problema è invece andare verso qualcosa di radicalmente Altro. Il centro, dunque, sembra ancora trovarsi nella frase di Marx: l’uomo produce l’uomo. […] Per me, ciò che deve essere prodotto non è l’uomo identico a se stesso, esattamente come la natura lo avrebbe disegnato o secondo la sua essenza; al contrario, dobbiamo produrre qualcosa che ancora non esiste e di cui non possiamo sapere come e cosa sarà.

Nel testo di Monacelli il lo-fi non viene codificato come un genere, ma come un mezzo: uno strumento di sperimentazione continua, capace di effettuare un taglio nel caos del capitalismo contemporaneo e lasciare entrare dall’altrove una luce nuova. Sarà questa luce a illuminare i materiali utili a costruire l’impensato, a dare spazio all’imprevisto e allo sconosciuto, ad accendere le prime scintille di quel processo capace di fare emergere il nome di un nuovo desiderio – e, con Fisher, noi lo riconosceremo [4]. 

Break the machine. Make it work otherwise.

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[1] “Esiste un problema di desiderio sul piano del capitale. L’immaginario legato alla guerra fredda lascia intendere che non esista davvero un desiderio… O meglio, che esiste soltanto il desiderio del capitalismo”. Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici. k-punk/1.
[2] A oggi, Discogs conta, tra album, singoli, compilation ed EP (definizioni che stanno strette alla produzione di Moore) oltre 168 elementi; su Rateyourmusic vengono superati i 375. In ogni caso, si stima una produzione di oltre 400 album.
[3] “L’archeologia sarebbe il metodo proprio dell’analisi delle discorsività locali e la genealogia sarebbe la tattica che, a partire dalle discorsività locali così descritte, fa giocare i saperi, liberati dall’assoggettamento, che ne emergono. Questo per restituire il progetto di insieme”. M. Foucault, Bisogna difendere la società.
[4] “Per il momento riusciamo a intravedere quel futuro soltanto a sprazzi. Ma costruirlo dipende da noi, anche se, su un piano diverso, esso ci sta già costruendo: come nuovo tipo di soggetto collettivo, come nuova possibilità di parlare in prima persona plurale. Nel corso di questo processo il nome del nuovo desiderio emergerà e noi lo riconosceremo”. M. Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici. k-punk/1.
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