Parlare di ecologia oggi è un po’ come camminare ad una fiera del libro. Nei padiglioni affollati da appassionati della lettura, cultori delle biblioteche ed individui annoiati in cerca di passatempi domenicali, ci si imbatte in banchi di case editrici più o meno conosciute, spesso vigilati da commessi a volte fanatici, a volte totalmente disinteressati. Alle fiere del libro ci si immerge nella danza di molteplici discorsi sordi gli uni agli altri, ma che pure si riuniscono in un unico luogo al fine di issare la propria bandiera e presenziare all’evento che sancisce la loro partecipazione all’universo editoriale. Vi sono discorsi strutturali, quelli delle case editrici, che hanno politiche e idee proprie sulle pubblicazioni e sull’estetica dei libri che stampano e mettono in commercio, e poi ci sono i discorsi dei libri stessi, a volte più ampi e profondi di quelli delle case editrici a cui fanno riferimento. L’esperienza che si fa camminando per una fiera del libro differisce di poco da quella che si fa camminando per una libreria. In effetti, quest’ultima è spesso, a parte rari casi, una fiera più raccolta, più piccola. È difficile comprendere il senso che sottende il raccoglimento di libri in un solo luogo, se si pensa alla fiera come ad un momento di pubblicità, di vendita, di profitto ulteriore e non di riflessione sul significato di quegli involucri cartacei. Le fiere del libro, che racchiudono una moltitudine schiacciante di discorsi, molte volte non proferiscono parola; sono puri e semplici contenitori. Nessuna casa editrice brama un nuovo lettore perché esso potrebbe trasformarsi in un fertile scrittore; il lettore acquista una merce, genera profitto. Ma se il rituale di incontro fra le storie e i pensieri racchiusi nel libro è solo un’altra declinazione della logica produttiva, senza niente di specifico ed intrinsecamente significativo, niente che lo giustifichi a parte l’abitudine o la necessità di ricordare che l’editoria è parte del mercato, allora il rituale è destinato a dissolversi. Povero del suo senso sarà povero anche del suo futuro.
L’ecologia è come una fiera del libro. Racchiude in sé una miriade di discorsi, spesso tangenti ma che non si rapportano fra loro in maniera diretta, ruotando freneticamente attorno al nucleo nebuloso che è il proprio principio, la domanda “come si pensa l’ecologia?”. A volte, peggio ancora, si denota in quanto discorso fra i discorsi, chiacchiericcio sull’ambiente e apologia della natura; ambientalismo. La scienza non pensa: Heidegger non viene smentito neanche riguardo all’ecologia. La scienza, qualunque essa sia, è rivolta alla comprensione del proprio oggetto in quanto determinato e statico. L’oggetto, in questo caso il rapporto fra organismo e ambiente, sta di fronte all’osservatore, monolitico. Colui che osserva ha il compito di produrre conoscenza da quell’osservazione da cui, d’altro canto, è escluso. Ma l’ecologia, che è appunto, lo si ripeta, studio del rapporto fra organismi ed ambiente, non può non riflettere sul fatto che nell’oggetto dello studio, il rapporto, è presente lo stesso soggetto, l’osservatore, in forma di oggetto, l’organismo. L’urgenza delle questioni che tratta l’ecologia è motivata dal tipo di situazione in cui nessuna scienza si era mai imbattuta: la sopravvivenza del rapporto organismo-ambiente traballa a fronte della minaccia mossa dall’organismo all’ambiente. È un massacro di prospettive che rimbalzano avanti e indietro, ancora negligenti rispetto alla questione assiale: come si pensa l’ecologia?
Cambiamento climatico, empatia animale, sfruttamento ed esaurimento delle risorse del pianeta, strumentalizzazione della natura, inquinamento. Essi sono alcuni dei discorsi che fanno parte della postura e del pensiero ecologico. Ognuno di questi discorsi affronta temi di pacifica attualità ed urgenza, sia per la nostra sopravvivenza che per la nostra convivenza, non solo in quanto elementi di sistemi sociali, ma come elementi di ecosistemi. È proprio questa, che poi è la rielaborazione della definizione di ecologia in quanto scienza, ad essere chiave utile alla comprensione di cosa significhi, essenzialmente, ecologia. La scienza analizza e studia, e che lo faccia. Noi, qui, piuttosto che dire che l’ecologia studia la relazione fra un organismo e il suo ambiente, la definiremo come la postura di pensiero per cui l’individuo è capace di riflettere su di sé e sulla propria relazione con l’ambiente. In altre parole, l’ecologia dovrebbe essere il modo di pensare all’individualità come relazione fra sistema ed ambiente. Rispetto alla definizione scientifica, si manifesta subito una fondamentale differenza. L’oggetto di quella scienza diventa in prima istanza l’osservatore stesso; ovvero, la questione centrale al pensare l’ecologia ruota attorno all’analisi che l’osservatore rivolge su di sé in quanto lente attraverso cui riflettere sul rapporto organismo-ambiente. In sostanza, auto-analisi.
Oikos-logos, letteralmente “discorso sul focolare domestico”, già nella sua etimologia indica chiaramente la direzionalità verso cui il soggetto implica l’oggetto. Il discorso, o lo studio, se così lo si vuole tradurre, richiama sempre un osservatore e un osservato nel rapporto per cui il primo analizza il secondo per descriverne una serie di caratteri. Ma non è questo che dovrebbe essere l’ecologia – soprattutto se prestiamo attenzione al fatto che già nel pensiero greco l’ambiente non rappresentasse altro che una risorsa da sfruttare – si vedano i resoconti del disboscamento dell’Attica nel Platone del Crizia, per citarne uno. La parola stessa “ecologia” richiama, e non può che farlo, il rapporto osservatore-osservato, e declassa quella che dovrebbe essere una struttura di pensiero a pura scienza cartesiana. Solo che, a veder bene, il dubbio ruota sempre attorno alla cosa che è l’osservatore, perennemente interno ed esterno, parte del gioco ma ad esso trascendente. È sull’osservatore che il pensiero ecologico deve fare pressione. Colui che analizza, infatti, è a tutti gli effetti parte dell’orizzonte che sta analizzando, soprattutto per quanto riguarda la relazione organismo-ambiente.
L’ecologia come scienza necessita di una eco-logica della mente, cioè di una dimensione ulteriore: non si può pensare quel rapporto se non si è quel rapporto. Tale questione ontologica è spesso travisata dall’etica ecologica in quanto performance – genesi di un nuovo ausiliare che condisce la nostra vita: fare ecologia. Uno dei punti salienti dell’etica ecologica è l’importanza del contributo che ogni individuo può dare alla “causa” dell’ambiente. Che cosa può fare ognuno di noi per vivere in maniera più ecologica? Se pure questa domanda può offrire risposte utili ad una lenta trasformazione del nostro “fare”, della nostra performatività nei riguardi dell’ambiente e della sua cura, essa rimane comunque gravemente monodimensionale. L’etica ecologica, così offerta e così perseguita, è menomata dal suo essere, appunto, una pratica performativa, che struttura la sua ragione su “ciò che s’ha da fare” al fine di produrre un determinato risultato. Obbligo morale, dovere. Fondamentalmente, l’ecologia lotta con la minaccia di essere territorializzata come pratica. Baudrillard lo sa già, quando scrive nel breve saggio Il Biancore Operativo, nella raccolta La Trasparenza del Male:
[o]ggi il volere stesso è mediato da modelli della volontà, da un far-volere, quali la persuasione e la dissuasione. Per quel tanto che tutte queste categorie hanno ancora un senso: volere, potere, credere, sapere, agire, desiderare e godere sono stati per così dire sottilizzati da una sola modalità ausiliaria: quella del ‘fare’.
In altre parole, la nostra concezione dell’azione, come ad esempio l’azione di comunicare, ha subìto un rimodellamento sulla base del proprio carattere operativo: parlare diventa un far-parlare, produrre un circolo operazionale dell’informazione che si riverbera e si ripete. Un esempio semplice è il gossip e il suo eminente carattere comunicativo che opera in modo tale da far-parlare contenuti privi di valore e di quel significato che sottende alla comunicazione intesa nella sua accezione più essenziale: trasmissione di informazioni, invece che informazioni che trasmettono. Altro esempio sono i talk-show a sfondo politico: è l’oggetto di discussione che fa-parlare gli interpellati, che vi danzano attorno con fare più o meno teatrale per dissimulare la totale assenza di vero dialogo: non hanno invero niente da dirsi. L’ecologia funziona allo stesso modo, ma è più soggetta al pericolo di farsi operazione della produzione (basti vedere la leggerezza con cui il mercato ha tradotto un consumo “sfrenato” nel suo cugino buono, il consumo “consapevole”). Essere ecologici significa pensare in maniera ecologica; ovvero, significa rifiutare senza troppe cerimonie la nozione di ambiente come orizzonte performativo. Praticare l’ecologia, sottintendendo che l’ambiente sia sempre e comunque la miniera da cui estrarre qualcosa, sempre e comunque una riserva di energie – o peggio, strumento di cui prendersi cura – non cambia assolutamente nulla del gioco che si è giocato fino ad oggi. Ciò che l’ecologia performativa non può fare è permettere all’osservatore di astrarre il proprio stesso carattere di osservatore e tradurlo in quello di elemento – osservato – che è già sempre parte del circuito che lega le “dimensioni” sistemiche.
Qualcuno, come Frances Moore Lappè, ha suggerito che l’ecologia necessiti di un “cambiamento nel modo in cui pensiamo” (sottotitolo al suo libro EcoMind). Essa, cioè, non deve apparire semplicemente come un modo di fare le cose in maniera sostenibile – una formula che non vuole significare nulla – ma di pensare attraverso lenti concettuali differenti da quelle con cui abbiamo imparato a riflettere sul mondo e sul nostro stare nel mondo. È un valido argomento, e Lappè offre anche riferimenti accorti, che spaziano dall’antropologia alle neuroscienze. L’influenza della riflessione di Gregory Bateson è piuttosto chiara, poiché preannuncia e indica il problema ecologico come un metalogo, ovvero “[…] una conversazione su un argomento problematico [che] dovrebbe essere tale da rendere rilevanti non solo gli interventi dei partecipanti, ma la struttura stessa dell’intero dibattito”[1]. È la struttura attraverso cui poniamo la questione ecologica, infatti, a dover essere riformata, poiché è da essa che si genera l’urgenza che le pertiene. Chiedersi come mitigare le conseguenze del surriscaldamento globale nella stessa forma attraverso cui ci chiedevamo come sarebbe stato possibile spostarsi più velocemente che a cavallo sottintende una miopia in stato avanzato. Ciò che mancava a quella domanda sul velocizzare il movimento era infatti una coscienza degli effetti prodotti non soltanto dalla risposta, ma anche dallo stesso porre la domanda. È paradossale oggi recuperare la bicicletta come se fosse sempre stata “l’alternativa green” rispetto all’inquinante automobile, ma era già implicito il giorno in cui si scelse di concentrarsi sulla seconda invece che sulla prima, o sulla mobilità individuale invece che su quella collettiva. In sintesi, a gran parte del nostro sviluppo tecno-scientifico è mancata una eco-logica, una struttura concettuale che obbligasse ogni domanda ad entrare a far parte di un reticolo di questioni che sono già, comunque, pertinenti le une alle altre anche se questa pertinenza non viene considerata. I fatti continuano ad essere fatti anche se li si ignora.
Inventare l’automobile non è un fatto che implica solamente se stesso e il suo fine. L’imporre un nuovo elemento all’interno del sistema significa immettere una sollecitazione che ne fa mutare la condizione di equilibrio o, in parole più semplici, crea una catena di effetti più o meno positivi. Questo è pacifico, quasi banale – oggi. L’automobile inquina; macellare tonnellate di carne inquina; volare inquina; trivellare i fondali oceanici per far muovere le automobili inquina, se tutto va bene, o crea un disastro ambientale se tutto va male. L’automobile è una protesi che garantisce velocità di spostamento, cambia le regole del sistema, rivoluziona i rapporti sociali, il lavoro, l’economia, la natura, la psicologia. Da strumento, essa è diventata “[…] un articolo di vestiario senza il quale ci sentiamo nudi, incerti, e incompleti”, diceva McLuhan negli anni ’70. Oggi è oggetto ambiguo, utopico e distopico, colpevole (se diesel) o redento (se elettrico). È chiaro che la portata degli effetti di ogni nuova tecnologia contemporanea non ci garantisce più di vivere in quella belle époque di produzione sfrenata. È su ogni presente e futura riflessione sul mondo che deve istanziarsi una logica dell’oikos, la struttura per cui ogni pensiero si muove dalla coscienza dell’intreccio indistricabile che lega i sistemi al loro ambiente. Non esistono i primi senza il secondo, e perciò deve esistere una forma di consapevolezza razionale che governi l’agire e il pensare sulla base della correlazione fra quelle due dimensioni, concetto definibile come soggettività sistemica. L’ecologia, che implica la distanza fra il sistema e l’ambiente, dovrebbe essere invece una struttura concettuale che sappia riconoscere l’intrinseca e vicendevole implicazione degli elementi del sistema, del sistema stesso, e del suo ambiente, senza la possibilità che uno si distanzi dall’altro: una eco-logica, struttura che riconosca in ogni individuo, in quanto soggetto pensante, la possibilità di assumere la prospettiva dell’intero sistema e riflettere a partire da quest’ultima posizione. In altre parole, si tratta di affinare la capacità di astrazione ad un livello tale per cui dall’agire individuale si produca un reticolo di informazioni che ci porti ad una visione d’insieme – che comunque, è chiaro, può essere solamente probabile, quindi avere la forma di un ragionamento abduttivo, il che è un punto a favore.
La struttura concettuale che sostiene la soggettività, le sue prospettive e il senso di “individuale” è perciò l’oggetto-soggetto da ripensare; oggetto, poiché è su di essa che va attuata una rimodulazione sulla base, oltretutto, delle conoscenze che ad oggi abbiamo acquisito relativamente alla teoria dei sistemi; soggetto, perché è quelle stessa struttura che pone la questione. Che esista una particella non più riducibile (individuo) non significa che essa non sia, al contrario, ampliabile fino a pensare ad un soggetto che racchiuda il sistema per intero e parallelamente un sistema che è soggetto cosciente. Un senso del sé che sappia astrarsi dalla propria dimensione per dialogare con altri elementi dell’ambiente in maniera attiva è la chiave di partenza attraverso cui è possibile risolvere la crisi ecologica, e non solo. Un simile scenario è auspicabile poiché esso accade intorno a noi ogni momento, anche se non lo tematizziamo.
In ultima analisi, due parole sul pensiero sistemico che pone le basi a questa riflessione sull’ecologia. La prospettiva dello studio della realtà nella forma di sistema in quanto totalità e non in quanto insieme scomponibile nelle sue parti più elementari è un campo di studi speculativi e scientifici che ha riscosso molto successo negli ultimi anni, a partire dalle prospettive, fra gli altri, di Gregory Bateson e i suoi approcci sistemico-olistici all’antropologia sociale e alla psicologia, la teoria generale dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy e l’applicazione di questa alla sociologia attuata da Niklas Luhmann. A mio avviso, l’efficacia speculativa e la ricchezza interdisciplinare che offre tale prospettiva sono molto profonde e meritano una presa in considerazione seria e adeguata – cosa che, in effetti, tramite gli studi di vari ricercatori, sta accadendo. Il pensiero sistemico è innanzitutto una forma di pensiero, ed è in particolare da questo principio che va ripensata la nostra modalità di fare-scienza. Citando Peter Senge: “Le attività umane sono sistemi ma noi ci concentriamo su istantanee di parti del sistema; poi ci domandiamo perché i nostri problemi non si risolvono mai.” Ed è effettivamente così: l’approccio utilizzato per cercare di definire l’ecologia in questo scritto si pone tale questione, dato appunto il funzionamento a “vasi comunicanti” che ogni campo della realtà ha rispetto altri campi e rispetto al variare della condizione di uno qualsiasi di essi. Il pensiero sistemico è la presa in carico di una complessità irriducibile che deve essere affrontata nella sua totalità e non attraverso scomposizioni semplificazioni, poiché la sistemica afferma l’eccedenza dell’intero sulla somma delle parti. Coerentemente, ciò che vale per gli altri campi del sapere vale eminentemente per l’ecologia, che è, in quanto studio del rapporto fra sistema-organismo e ambiente, è già intrinsecamente sistemica nella sua essenza.
Bibliografia, citata e non.
- L. Apostel, Systementheorie als instrument ter eenmaking van onze cultuur — een schets, De eenheid van de cultuur, L. Apostel ed., Amsterdam, 1972
- G. Bateson, M. C. Bateson, Dove gli angeli esitano: verso un’epistemologia del sacro, Adelphi, 1998
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- L. von Bertalanffy, The history and status of a general systems theory, Trends in general systems theory, New York, 1972
- L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi, trad. it. E. Bellone, Mondadori, New York, 2004
- R. P. De Vries, R. Van Hezewijk, Systems Theory and the Philosophy of Science, Annals of Systems Research, vol. 7, pp 91-125
- R. Dyball, B. Newell, Understanding Human Ecology: A systems approach to Sustainability, Routledge, 2015
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- F. M. Lappé, EcoMind: Changing the Way We Think, to Create the World We Want, Public Affairs, 2013
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- L. Urbani Ulivi ed., Strutture di Mondo: il pensiero sistemico come specchio di una realtà complessa, vol.1, Il Mulino, 2010
- L. Urbani Ulivi ed., Strutture di Mondo: il pensiero sistemico come specchio di una realtà complessa, vol.2, Il Mulino, 2013
- L. Urbani Ulivi ed., Strutture di Mondo: il pensiero sistemico come specchio di una realtà complessa, vol.3, Il Mulino, 2015