trad. it. Filippo Scafi e Stefano Moioli
“La soluzione consiste essenzialmente nella trasformazione del conflitto da un problema politico ad una transazione economica. Quest’ultima appare come un problema politico risolto. L’economia ha guadagnato il titolo di regina delle scienza sociali attraverso la decisione di prendere come dominio proprio quello dei problemi politici risolti.”
— Abba P. Lerner (1972: 259)
Introduzione[1]
L’economia è stata a lungo percepita come una disciplina tecnocratica e poco attraente. Recentemente, questa tendenza sembra aver preso una piega diversa, giacché essa sta diventando sempre più popolare tra giovani studenti desiderosi di cambiare il mondo in meglio. Gli altruisti integralisti, che cercano di fare il meglio nel modo migliore possibile, raccomandano agli studenti di ottenere un dottorato in Economia, perché riuscirebbero ad avere “maggiori chance di produrre ricerche di forte impatto” e perché “è uno dei più promettenti percorsi di studio per coloro i quali vogliono fare la differenza.” (Duda 2015).
Si sostiene che affrontando alcuni dei problemi politici più pressanti di oggi, come il cambiamento climatico, le differenze salariali o il razzismo, entro gli schemi concettuali dell’economia, ha il vantaggio di trattare questi problemi, a differenza di altre discipline meno “quantitative” come la storia o la sociologia, con evidenze matematiche invece che con l’ideologia. Ma qual è, esattamente, il legame tra politica ed economia? Come interagiscono queste due branche del sapere? E, soprattutto, l’economia è veramente in grado di preoccuparsi, ed occuparsi, degli odierni problemi politici in una maniera neutrale e non ideologica?
Discutendo del tessuto di relazioni che lega il pensiero economico con la politica, questo saggio cercherà di suggerire potenziali risposte alle suddette domande.
1. Definizioni preliminari
All’inizio di questa indagine, ritengo sia opportuno fare delle precisazioni: che cosa intendo con “economia” e con “politica”?
Con “economia”, per iniziare, intendo la visione economica del mondo, incluse le sue radici e i suoi aspetti filosofici, così come, inoltre, la sua manifestazione nell’attuale lavoro di scienziati e responsabili politici. Quindi, intendo qualcosa di più ampio rispetto alla mera pratica dell’“essere” un economista. Grosso modo, la definizione che utilizzo qui indica il novero di concetti e idee, così come l’immagine dell’uomo e della società, che soggiacciono alla teoria economica e al pensiero economico a fortiori. Ad esempio, la visione economica del mondo viene frequentemente adottata dagli economisti, dai politici e dai giornalisti. Dunque, accingendomi ad esplorare le relazioni tra economia e politica, non intendo far riferimento alle intricate conseguenze delle legislazioni politiche sull’economia.
Con “politica”, d’altra parte, non mi riferisco solamente ai processi e meccanismi in funzione negli attuali governi, così come le loro relazioni con gli altri attori della società, come i media e i cittadini, in quanto vorrei includere, inoltre, i principi e i valori che uniscono i diversi membri di una società. Questa comprensione presuppone che vi sia, oltre alle concrete istituzioni politiche, qualcosa che ‘tenga assieme’ e che trasformi un insieme di individui in una comunità. A questa “essenza” di tutta la politica (Critchley 1993: 74sgg.) è stato dato il nome di “Politico” (Schmitt 1932).
Durante il XX secolo ci sono stati diversi tentativi di definire il Politico, come ad esempio, nel caso del Nazismo o altre forme di fascismo, attraverso la determinazione di una fondazione mutuale della società sulla base di tratti razziali, biologici o territoriali condivisi (Badiou 1994:124), oppure, in riferimento alla dottrina marxista, attraverso predeterminati ruoli storici come parte di una classe (Lefort 1988). Dopo l’evento dell’Olocausto e, successivamente, la scoperta delle atrocità staliniste, Hannah Arendt e altri teorici politici[2] formularono un paradigma teorico per cui il Politico rimane fondamentalmente indefinito. Secondo questa visione, esso non viene compreso come un’entità fissa che può essere circoscritta, formulata e precisamente definita, ma viene piuttosto concepita come un’arena in cui gli esseri umani discutono e dibattono attorno a ciò che gli unisce. Di conseguenza, questo concetto è stato caratterizzato come “l’idea che una società libera composta da diversità può tuttavia godere di momenti di comunanza (Wolin 1996: 31), e come “il luogo dove cosa significa essere in comune è aperto a definizioni.” (Fynsk 1991: x).
Osservando le relazioni tra economia e politica, cercherò di esaminare le connessioni che il pensiero economico intrattiene con la sfera dei valori conflittuali e della libera discussione che risiede al centro della politica.
2. Politiche economiche – Arendt e l’Economia Politica
Tra le altre cose, la visione economica del mondo si manifesta in due sfere: in primo luogo, nella scienza economica e, in secondo luogo, nelle politiche neoliberali così come rappresentate—nella maggioranza dei casi—dai partiti liberali europei di centro destra. Considererò il pensiero neoliberale nella sezione successiva. Qui mi dedicherò invece alla dimostrazione che certe assunzioni integrate in economia aprono la strada a specifiche conclusioni politiche.
Nella teoria economica, le quattro assunzioni che seguono sono generalmente accettate: in prima istanza, uno dei principali obiettivi delle politiche consiste nel garantire un efficiente funzionamento della società, e deve nella fattispecie porre rimedio, laddove necessario, ai fallimenti del mercato, così come migliorare la crescita economica (Arrow 1973; Hayel 1979). In seconda istanza, un altro altrettanto importante obiettivo della politica è quello di aggregare preferenze preesistenti dei cittadini in una funzione di welfare sociale che rappresenti l’intera popolazione (Arrow 1951). In terza istanza, l’idea per cui cittadini e figure politiche agiscono come se fossero agenti che massimizzano l’utile (es. Posner). E in ultima istanza, l’economia viene pensata come lo studio delle decisioni in condizioni di scarsità (Robbins 1932).
Questi assunti vengono frequentemente incontrati nell’approccio della visione economica del mondo rispetto una vastità di argomenti, in cui vengono utilizzati per giustificare asserzioni che sono intrinsecamente politiche. Inoltre, siccome sono basate su assunti scientifici, queste proposizioni vengono spesso presentate come tesi fattuali e non ideologiche. Tuttavia, la loro presunta neutralità è decisamente opinabile. Posso darvi quattro esempi di questo modus operandi, benché ve ne siano di diversi.
1. Se viene sollevata la questione dei salari esorbitanti dei manager, le voci del pensiero economico replicano con la teoria della proprietà e del controllo (es. Fehr 2013; Schwartz 2013). Questa teoria afferma che il pagamento di salari al di sopra del prezzo di mercato è uno strumento importante per allineare gli incentivi degli amministratori delegati a quelli dei proprietari dell’azienda (gli azionisti), al fine di prevenire una gestione inefficiente della società (Jensen e Meckling 1976; Fama e Jensen 1983). Insistere sulla preponderanza degli aspetti economici della questione significa tuttavia assorbirli interamente nel dominio del mercato e, dunque, sorvolare sugli aspetti profondamente politici (Singer 2018: 13). Questa risposta ignora così la questione genuinamente politica degli stipendi che realmente vogliamo vedere assegnati ai manager.
2. Se ad essere discusso è il modo in cui i giudici dovrebbero reagire alle crisi finanziarie, come quella del 2008, si sostiene che le dispute con le banche andrebbero evitate, per via della loro rilevanza sistemica per le transazioni economiche (es. Arruñada e Arce 2016). Tra l’altro, questa visione poggia su tesi centrali della legge e dell’economia, tali per cui la legge dovrebbe essere efficiente al fine di garantire ridotti costi di transazione (Posner 1973). Tuttavia, se le banche debbano essere ritenute legalmente responsabili della crisi finanziaria è una questione profondamente politica. Favorire un principio legale—la responsabilità sociale speciale delle banche—rispetto ad altri—possibile efficienza, certezza delle istituzioni legali—è parimenti una questione politica. Dworkin osserva in proposito che nelle decisioni giuridiche è presente un marcato eppure genuino disaccordo, così come è presente nella scienza, nella storia o nella critica letteraria (1977: 9). Nella visione economica del mondo, non sembra esserci posto per questo genere di dispute.
3. Recentemente, economisti e politici del libero mercato hanno sostenuto che le misure attuate dai governi in risposta alla pandemia da Coronavirus imponevano eccessive restrizioni all’economia e che le vite delle persone vulnerabili erano sopravvalutate rispetto alle conseguenze della crisi economica indotta dal lockdown (Rühli 2020; Voth 2020). Chiaramente, una crisi economica ha delle conseguenze moralmente significative. Ciononostante, l’attuale dilemma affrontato dai governi è essenzialmente un dilemma politico. Quanto possono essere ingenti le perdite economiche in modo da giustificare la messa in pericolo della vita delle persone? Non esiste una risposta fattuale a questa domanda, e diverse visioni politiche sono possibili.
4. Soprattutto, in economia è spesso sufficiente giustificare la fissazione per la crescita economica come fine ultimo della politica attraverso alcune slide che mostrano la correlazione tra PIL e altri indici di sviluppo come l’HDI, l’istruzione o la salute. In tal modo, viene sistematicamente dimenticato che focalizzarsi strettamente sul PIL trascura aspetti di giustizia distributiva (Milanovic 2016; Picketty 2020) e riesce solo a catturare quelle attività che sono classificate come produttive nella definizione del PIL (cfr. Warring 1988). Per giunta, affermare che alcune persone hanno convinzioni politiche che non danno priorità alla crescita del PIL è un’assurdità secondo parecchi economisti. Nondimeno, è un dato di fatto che alcuni cittadini sono disposti a rinunciare alla potenziale crescita economica o efficienza per altre cose come equità, sostenibilità, etc. Il solo paventare un disaccordo su questo tema sembra essere un’offesa.
In tutti questi casi, l’assunzione di agenti che massimizzano l’utile e la tesi generale secondo cui la politica dovrebbe generare transazioni efficienti e crescita economica sembra non lasciare spazio a quegli aspetti che normalmente chiameremmo “politici” o “etici”. Il pensiero economico sembra tacere su questioni come “Che cosa vogliamo fare?” e “In quale società vogliamo vivere?”. Piuttosto, l’economia pare essere principalmente interessata a ciò che dovrebbe o deve essere fatto, come se fosse già necessariamente determinata quale decisione dovrebbe prendere la società. Detto in altri termini, la visione economica del mondo sembra incapace di cogliere il disaccordo, basato su differenze di opinioni politiche, valori e ideologie. Uno dei più importanti teorici politici del XX secolo ha proposto un quadro teorico per dare un senso a questa impressione.
3. L’analisi economica come neutralizzazione del Politico
In Vita activa ([1958] 1998), Hannah Arendt sostiene che la modernità si differenzia dall’antichità per il suo trattamento del Politico (ibid.: 33sgg.). Nel pensiero ellenistico classico la politica veniva considerata un’attività autonoma e indipendente, distinta e primaria rispetto a tutti gli altri aspetti della vita sociale (ibid.: 37). La politica era ritenuta talmente importante che Aristotele definì l’uomo come zoon politikon, un animale politico (Aristotele, Politica: 12253°1-11). Nella modernità, sostiene la Arendt, la politica non è più una sfera autonoma, ma nulla più che un sottoinsieme della società. Il pensiero moderno si manifesta nella convinzione che “la politica non è altro che una funzione della società, e che l’azione, il discorso e il pensiero sono in primo luogo sovrastrutture dell’interesse sociale” (Arendt [1958] 1998:33). In contrapposizione con l’agora greca, laddove il disaccordo e la disputa erano essenziali ingredienti della vita politica, nell’era moderna, la società agisce come se fosse “una famiglia estesa, che ha una sola opinione e un solo interesse” (ibid.: 40). Arendt spiega che il concetto di singolo interesse trova le sue origini nella “finzione comunista” (ibid.:44), che consiste nell’idea per cui noi “amministriamo i nostri affari collettivi a livello centrale attraverso un corpo di esperti che deleghiamo perché assumiamo che ci sia—e che loro conoscano e servano—un interesse oggettivamente identificabile nella ‘società nel suo insieme’” (Pitkin 1998: 15).
Questa ipotesi è stata definita come la “neutralizzazione della politica” (Marchart 2007: 44sgg.). Se il politico viene neutralizzato, ne consegue che l’attività politica autonoma—il ragionamento collettivo circa quali politiche implementare, quali valori prediligere, quali procedure accettare, etc.—è ridotta a questioni di matrice burocratica di interessi e bisogni sociali, risorse e vincoli. Ora, in quanto principale promotrice e sostenitrice di questa idea, la Arendt menziona esplicitamente l’economia (Arendt [1958] 1998: 28 f., 40sgg., 208, 306; cf. Canova 1974).
Ciò può essere interpretato come di seguito: in primo luogo, restringendo l’analisi economica allo studio delle decisioni in condizione di scarsità (Robbins 1932), l’economia diviene lo studio della gestione pubblica delle risorse scarse, che ammonta ad una riduzione della politica alla fornitura dell’economicamente e biologicamente necessario (Pitkin 1998: 11). Il problema di come debbano essere spesi beni limitati, presuppone che siano stabiliti gli scopi per i quali dovrebbero essere utilizzate queste risorse (cfr. Nussbaum 2015: 23sgg.).
In secondo luogo, in relazione al secondo libro dell’economista Gunnar Myrdal, The Political Element in the Development of Economic Theory ([1954] 2017), la Arendt argomenta che l’economia può assurgere allo status di scienza solo se presuppone che la società si comporti come un solo individuo, e perciò che cada necessariamente preda della “finzione comunista” (ibid.:54, 150)[3]. Se le preferenze necessitassero semplicemente di essere esposte in modo corretto, non ci sarebbe spazio per la contrattazione e deliberazione collettiva di ciò che dovrebbe essere perseguito dalla comunità in quanto tale. In questo caso, il “volere del popolo” sarebbe già predeterminato, poiché le preferenze individuali non sono toccate dalla sfera politica (cf. Laclau 2005: 161sgg. per una critica).
Si è detto che aggregando diverse preferenze attraverso una funzione di welfare è una misura da approcciare con disaccordo e tuttavia capace di tirare conclusioni rappresentative di una società intera (Kaplow and Shavell 2001). La citazione proposta in esergo di Lerner (1972: 259) esemplifica efficacemente l’idea per cui attraverso una transazione economica si possa risolvere un conflitto politico. Ciò è stato definito “strategia dell’incorporamento” (Kornhauser 2017) perché assume che le differenze politiche e morali possano essere incorporate all’interno di un impianto di utilità monodimensionale. In ogni caso, questo tipo di approccio confonde la natura del dissenso. Come afferma lo studioso di diritto Lewis Kornhauser:
Il disaccordo morale non riflette conflitti d’interesse, ma dispute rispetto a come tali conflitti dovrebbero andar risolti. La risoluzione di un conflitto morale determina di chi conti il benessere, e non quanto benessere l’agente detiene.
Perciò, la strategia di incorporamento è destinata a fallire, perché, nonostante le transazioni economiche rappresentino una possibilità di risoluzione dei conflitti di interesse, il disaccordo morale abitualmente avviene ad un livello diverso. In questo tipo di disaccordo si dibatte su come un conflitto di interesse andrebbe risolto. Presupporre una soluzione di mercato come la via per risolvere conflitti elude irrimediabilmente l’essenza del disaccordo morale.
Se il Politico è il denotare il processo di contrattazione collettiva nel determinare di quali individui il welfare conti, e quali obiettivi andrebbero perseguiti, sembra chiaro che l’analisi economica opera in termini differenti. Osservando la politica solamente attraverso le lenti dell’economia neutralizza la prima, poiché non le garantisce alcuno spazio libero per tali discussioni basate su valori ed opinioni con un fine aperto.4
4. Economie politiche – l’inesistente dibattito Myrdal-Hayek rivisitato
In un libro recente, l’economista dello sviluppo William Easterly (2003) struttura il dibattito riguardo il giusto tipo di economia dello sviluppo attraverso due premi Nobel, i quali hanno ricevuto i loro premi lo stesso giorno ma che hanno due visioni molto in disaccordo l’una con l’altra: Hayek e Myrdal. Mentre il primo è il principale difensore dei diritti individuali, Myrdal non garantisce loro alcuno spazio speciale nella sua teoria. Dove Hayek argomenta che il mercato può meglio produrre conoscenza riguardo ad ogni tipo di decisione pianificata, Myrdal si erge in favore di regolamentazioni di vasta portata. Anche se i due furono premiati nello stesso momento, le loro visioni divergenti non si sono mai trovate faccia a faccia in un dibattito pubblico. Easterly ricostruisce questo “dibattito inesistente” e contrasta le loro idee in fatto di sviluppo (ibid.: 17sgg.).
Nel far ciò, la trattazione che Easterly riserva ad Hayek risulta altamente accurata, dato lo statuto di fervente difensore della free-market economy di Easterly stesso, e le visioni di quest’ultimo appaiono chiaramente influenzate da quelle dell’economista austriaco. Ad ogni modo, invece, la trattazione relativa a Myrdal appare incompleta[4]. È importante sottolineare come l’opera metodologica di Myrdal The Political Element in the Development of Economic Theory—che è servito da riferimento per la Arendt e, affermato da Myrdal stesso, rimane il suo più importante lavoro scientifico (Anderson 1986: 75f)—non viene neanche citato nel libro di Easterly.
È interessante guardare all’opera di Myrdal, in cui egli tenta di dimostrare come l’economia non può fuggire dall’avanzamento di rivendicazioni politiche. Egli afferma che gli economisti, storicamente e nel presente, mischino economia e politica tirando conclusioni da “è” a “dovrebbe essere” ([1954] 2017: 5). Un modo per cui ciò potrebbe accadere è attraverso l’ipotesi per cui i mezzi sono neutrali, mentre i fini non lo sono. Myrdal afferma che i mezzi possono benissimo contenere elementi politici, ed essere al contrario tutt’altro che neutrali (1958: 206-230). In altri lavori, egli continua ad esaminare il problema del valore e dell’oggettività nelle scienze sociali e conclude che
Una ‘scienza sociale disinteressata’ è impossibile, e, infatti, impensabile a livello logico. Nell’analisi sociale entrano valutazioni, non solo in relazione a conclusioni riguardo politiche, ma già nello sforzo teorico di stabilire cosa è oggettivamente vero—nella scelta del campo di discussione, di selezione degli enunciati, finanche la decisione rispetto a ciò che è un fatto e ciò che è un valore. I nostri concetti sono perciò “carichi di valore” (1961: 274).
Myrdal, perciò, definisce come un fatto indisputabile che le scienze sociali, inclusa l’economia, siano influenzate da valutazioni etiche e politiche. Invece di mascherarsi dietro affermazioni scientifiche, egli supporta la visione per cui l’economia dovrebbe ritornare al suo stadio originale di “scienza morale” (Swedberg 2017: xxix)[5].
Non è stato solo Myrdal, comunque, ad essere critico della direzione che l’economia del suo tempo stava prendendo. Hayek ha parimenti voltato le spalle all’economia, anche se per ragioni completamente differenti. Dopo le crisi finanziarie degli anni trenta, Hayek realizzò che l’economia mondiale era essenzialmente un’entità inconoscibile (Slobodian 2018: 18). Ciò rappresenta un’estensione della sua teoria che la conoscenza decentralizzata incorporata nel sistema di prezzo di un mercato libero eccedeva il quantitativo di informazione che poteva essere potenzialmente maneggiata da individui specifici (Hayek 1945). Per Hayek i tentativi di comprendere totalmente l’ordine spontaneo dell’economia mondiale non era altro che “tracotanza della ragione” (1973: 33) o la “pretesa della conoscenza” (1978). Per ragioni politiche, egli vide comunque l’economia mondiale come valevole di protezione. Hayek credeva che, a fianco della democrazia nei sistemi politici, esista un altro senso di “democratico”: la democrazia del mercato libero, dove tutti le libertà individuali (Hayek 1960: 11sgg.) vengono rispettate e tutte le preferenze sono rappresentate perfettamente (Hayek 1979). Tale visione della democrazia può essere implementata in un mercato mondiale libero “incassato” (Slobodian 2018: 13) e garantito da forti istituzioni sovranazionali. È importante che queste istituzioni debbano essere localizzate ad un livello più alto rispetto agli stati nazione, ovvero al di sopra di ciò che le normali istituzioni democratiche possano controllare (ibid.: 19).
Dato il fatto che Myrdal, lungo tutta la sua carriera, lavorò sulla questione delle credenze politiche e dei valori in economia ci porta a riconsiderare il contrasto con Hayek, che fu esplicitamente un economista e un filosofo politico. Il dibattito inesistente Hayek-Myrdal (Easterly 2013: 17sgg.) può essere riformulato nel contesto della relazione fra politica ed economia. Allora, così facendo, diventa chiaro che la differenza cruciale fra Myrdal e Hayek non giace sul loro disaccordo su come concepire lo sviluppo economico, ma sulle loro opinioni discordanti relative la gerarchia che si manifesta fra economia e politica.
Quando Myrdal parla di una dichiarazione aperta rispetto alle visioni morali e politiche dell’economista, egli definisce la politica come precedente e prioritaria di fronte all’analisi economica. La principale preoccupazione di Myrdal è relativa al fatto che la ricerca nelle scienze sociali è influenzata dai valori e dalle valutazioni storico-culturali e che perciò non si può liberare dal proprio essere parte della discussione politica. In questo senso, l’economia è incorporata nella politica.
Hayek invece rovescia questo ordine e posa l’economia sulle spalle della politica. Se l’obiettivo di Hayek è un’economia mondiale libera protetta da istituzioni sovranazionali, non c’è alcuna necessità di un genuino discorso politico dato che ogni rilevante conflitto di interesse è risolto attraverso il mercato e che le preferenze di ognuno sono rappresentate perfettamente. Hayek assimila il suo sforzo ad una “detronizzazione della politica” (Hayek 1979:149). In questo senso, si può dire che la teoria economica di Hayek è una teoria anti-politica perché la risposta alla questione fondamentale di ogni riflessione politica, ovvero “come organizzare la coesistenza umana” (Mouffe 2000: 5), non si trova in nessuna sfera che sia associata alla politica, bensì all’interno del reame dell’oikos, il focolare, il luogo delle necessità e delle dinamiche di mercato.
Nella riflessione di Hayek, noi riconosciamo ancora la neutralizzazione del Politico. Anche se il pensiero economico neoliberale è una delle forze che agiscono nella politica globale e perciò va compreso come un progetto politico, rimane un progetto estraneo al Politico. Piuttosto, esso va concepito come un vedere il mondo scevro dal dibattito, un mondo dove la politica genuina nel senso che evidenzia la Arendt gioca un ruolo assolutamente secondario, se mai ne gioca qualcuno.
Conclusione
Seguendo il pensiero per cui la politica “genuina” è concepita come un luogo di dibattito aperto riguardo a quali valori sono desiderabili e quali tipi di benessere sono da considerare come caratterizzanti una comunità, ho cercato di mostrare due cose: (i) certe asserzioni comuni in analisi economica, perpetuate da quella comprensione economica del mondo, non lasciano spazio alcuno per tali deliberazioni e (ii) se l’economia è compresa attraverso le lenti del pensiero neoliberale di Hayek, il discorso politico ne risulta neutralizzato, poiché i meccanismi primari di organizzazione della coesistenza umana vanno ricercati al di fuori del campo politico, nel funzionamento del perfetto mercato mondiale.
Ora, chiaramente la visione economica del mondo e l’economia presente sono, per la gran parte, lontane dalle orme di Hayek. Inoltre, non sono totalmente di impronta neoliberale (cfr. Naidu, Rodrick and Zucmann 2019; CORE Team 2017). In aggiunta, non è neanche vero che chiunque sia interessato all’analisi economica del fenomeno politico condivida necessariamente le asserzioni che ho evidenziato più sopra—specialmente l’affermazione per cui le istituzioni dovrebbero primariamente basarsi sull’efficienza è controversa fra gli economisti stessi.
Nonostante tutto, queste asserzioni sono ancora influenti nel dibattito economico attuale, ed oltre esso. Un progetto chiave, quindi, dovrebbe essere quello di separare l’elemento politico in ogni tipo di analisi economica dal progetto chiaramente politico della visione del mondo neoliberale che si manifesta nell’economia. Se questo sia possibile o meno, e quali siano le condizioni di ciò, rimane un terreno da esplorare[6].
Riguardo la domanda iniziale che ha mosso il presente lavoro, se l’economia possa o no contribuire o risolvere le pressanti questioni politiche del XXI secolo, la risposta è negativa. Finché la riflessione e la pratica economica rimane influenzata dalle teorie discusse, continuerà a contenere tendenze antipolitiche. L’economia sembra rimanere incapace di provvedere a definire efficaci griglie utili a formulare le risposte alle richieste della contemporaneità, ove, forse e invece, la politica, terreno di scontro fra obiettivi, valori e credenze divergenti, dove si manifesta il dissenso e dove gli viene permesso di manifestarsi, rimane un campo di possibile evoluzione sociale e culturale.
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[1] Sono grato a Magnús Ásmundsson, Elia Benveniste, Rhea Blem and Yongjoon Youn per i loro preziosi commenti ad una versione precedente di questo articolo. Vorrei inoltre ringraziare Anne-Christine Schindler e Mark Isler per i loro cruciali suggerimenti relativi alla storia del neoliberismo di Quinn Slobodian
[2] Vedere ad esempio il lavoro di Jacques Rancière, Ernesto Laclau, Chantal Mouffe, Claude Lefort, Alain Badiou, Giorgio Agamben e Jean-Luc Nancy, cfr. Marchart (2007) per uno studio eccellente su questi autori.
[3] Inevitabilmente, bisogna pensare alle ipotesi della “famiglia rappresentativa” in macroeconomia
[4] Easterly ammette di aver preso parecchie citazioni di Myrdal da un altro testo, Dissent on Development (1971), di P. T. Bauer, un economista neoliberale e membro della Mont Pelérin Society di Hayek (Easterly 2017: 35)
[5] L’economista interdisciplinare ed ex presidente dell’American Economic Association Kenneth, E. Boulding, prende una posizione simile quando sostiene che l’economia è intrisa di una “etica calcolatrice”, contrapponendola ad una “etica eroica” (Boulding 1969: 9 ss.). È interessante notare che Boulding riconosce l’esistenza e l’importanza di un’etica contraria al pensiero economico. Nel quadro attuale, un tale approccio non sarebbe una neutralizzazione della politica
[6] La mia tesi è che sia possibile essere un economista neoclassico che segue la corrente più in voga attualmente e non approvare le opinioni neoliberali, ma che non è possibile essere un economista dello stesso stampo e non approvare affatto le opinioni liberali. Lo immagino a causa delle ipotesi consequenzialistiche e individualistiche nei fondamenti microeconomici dell’economia neoclassica, che favoriscono la teoria politica liberale enfatizzando i diritti individuali e la libertà negativa rispetto alle teorie positive della libertà che porterebbero a posizioni più “socialiste” (cfr. Berlin 1969)
Pablo Hubacher Haerle è uno studente di filosofia ed economia. Nato a Zurigo, vive attualmente a Barcellona. E’ interessato a filosofia delle scienze sociali (specialmente psicologia ed economia), teoria politica (specialmente post-fondazionalismo), Wittgenstein ed epistemologia. Oltre a ciò, è appassionato di letteratura e rap svizzero.