Il compito di diventare umani

Conversazione con Nicola Perullo

by / 30 Novembre 2022

A cura di Marcela Isabel Navea Vera.

In occasione dell’uscita del libro Estetica senza (s)oggetti abbiamo fatto qualche domanda all’autore, Nicola Perullo. Allontanandosi dai desideri e dalle proiezioni di un mondo post-umano, Perullo individua una via per una ritrovata consapevolezza. Diventare-umani, continuamente: “Un compito che ha come fine il vivere, nient’altro che questo”.

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C: Ciò che risulta dal tuo libro è una radicale messa in discussione del pensiero ego-centrico, oculo-centrico, lineare, fondato, metodologico, che fa della rigidità e della disciplina una cieca virtù – un pensiero che oggi non solo non funziona più, ma intralcia il vivere dell’uomo nel e con il mondo. Ma che cosa significa concretamente mettere in discussione un pensiero? È una questione di framework, ossia di riorientare un’intera modalità di approccio al “mondo”, sia linguisticamente che percettivamente?

NP: Come hanno fatto rilevare in molti, è dubbio che si possa mettere in discussione un pensiero argomentandovi contro, cioè opponendovisi frontalmente, dunque rimanendo nello stesso vapore, nella medesima densità atmosferica. Spesso però questa impossibilità viene compresa secondo gli strumenti dell’ontologia e della logica formale, il che porta a concludere (cosa che avviene per esempio anche nel primo Derrida) che non si possa mai e in ogni caso mettere in discussione il pensare concettuale-frontale perché non vi è alcuna possibilità di sottrarvisi: l’impossibilità di uscire dalla metafisica, si diceva un tempo; oggi si dice più frequentemente l’impossibilità di uscire dall’ontologia. Se invece proviamo a comprendere tale impossibilità a partire dalla questione della frontalità, sperimentando perciò una dislocazione del percepire che va nel senso di una sua lateralità o obliquità, per dirla con Jullien, allora si intravedono alcune possibilità che disegnano uno scenario diverso. Mettere in discussione l’oculo-centrismo lineare, solido, fondazionale e metodico di ego per me significa non affrontarlo ma spostarsi, fare un’altra strada, cambiare campo di gioco. Trascurare la vita per percepirne potenzialità inedite. Ma non sostituire quel modello con uno nuovo! Non si tratta di un “al posto di” ma di un “anche”, un arricchimento, la capacità di sentire e pensare uno scarto. È questo che cerco di proporre in Estetica senza (s)oggetti, attraverso il suggerimento di una sperimentazione percettiva che è al tempo stesso semplice e difficile. Semplice perché è “sufficiente” una forza minimamente orientata per verificare il cambio, ed è una cosa che si può verificare continuamente, quotidianamente, non richiede scuole né culture particolari. Difficile perché questa forza è sempre sottoposta alla sua cristallizzazione cognitiva, esattamente quella che sto facendo io scrivendo queste righe e tematizzando il non tematizzabile. Se la percezione è irriducibile al cognitivo, non può mai risolversi nella sua tematizzazione. Dunque, faccio questa proposta con piena consapevolezza non solo della difficoltà dell’impresa ma anche dei rischi paradossali che la costellano, e tuttavia ritenendo questa strategia come la più coerente e utile.

C: Parli spesso di «crisi di percezione». Cosa intendi e cosa comporta? E, soprattutto, perché il percepire riveste un ruolo fondamentale all’interno del tuo pensiero?

NP: Tutto è percepire. Nel modello che propongo, percepire non è uno stadio intermedio tra sentire e pensare, perché ogni sensazione e ogni pensiero si manifestano come percetti e, peraltro, si manifestano in corrispondenza e in mescolanza, sinteticamente. In questo senso, percepire corrisponde al vivere, all’accadere, che è però sempre con-vivere. La relazione come processo e il processo come relazione. Ogni evento è un percepire, e ogni percepire è un evento; nel libro ho infatti differenziato tra percepire e percezione: il verbo rimanda alla dimensione più-che-umana del percepire, alla relazione e manifestazione della coscienza come, per dirla con Heidegger, apertura con il mondo. Il sostantivo, percezione, corrisponde invece alla prospettiva particolare di ogni unità singolare di coscienza, all’“io” o al “noi”. Ciò chiarito, l’idea che attraversiamo una “crisi” di percezione è il motivo principale per cui ho scritto questo libro. Con ciò intendo l’attuale acuita incapacità di percepire il reale secondo una densità diversa, una potenzialità irriducibile al solido e al visibile degli oggetti: tutto è schiacciato sul solido e sul visibile come unico piano di realtà. E in questo senso vanno anche alcune tendenze molto in voga oggi, anche quelle che si presentano come messa in questione dell’antropocentrismo e a favore di un pensiero ecologico.  La percezione (s)oggettuale si presenta oggi come esclusivo modo del vivere, ma non funziona più. Il pensiero ecologico non può ridursi a un mero materialismo. Il potenziale, il simbolico, il misterioso, il meraviglioso, il sublime, ecc. sono dimensioni che chiedono, a mio avviso, il recupero di percepire relazionale, cioè ortogonale e non frontale, periferico, se si vuole un “terzo occhio” che attraversi longitudinalmente il reale per corrispondervi. L’idea del libro è che ciò oggi sia coerente e risonante con quanto sia la process philosophy che la scienza contemporanea propongono.

C: Nel corso del testo sembra emergere a più riprese l’urgenza di destituire verbi come ‘avere’ e ‘volere’ in favore di una terza persona impersonale che si apre all’esistenza. In che modo questa urgenza si relaziona con quello che definisci percepire aptico?

NP: Questa terzietà è una medietà non individuale che ho cercato di mettere in evidenza attraverso il richiamo continuo al cum: cum-scientia, cum-munis, cum-vivere, ecc. L’esistenza è coesistenza, gli individui non esistono. Questo non significa che le identità singolari non si creino; ma esse sono, letteralmente, storie. Le prospettive sono storie, intrecci di eventi in cui alcuni annodature si presentano, si presentificano alle singole unità di coscienza: la “mia” identità, la “mia” tradizione, la “mia” famiglia, ecc. Ora, il percepire aptico è la disposizione a percepire un mondo di processi e non di oggetti; processi di cui la “mia” percezione è partecipe, sia nel senso di esserne presa che nel senso di esserne co-creatrice; ma questa disponibilità avviene come consapevolezza – un cum-sapere che però non coincide con la cognizione concettuale, in quanto la attraversa ortogonalmente – dell’impermanenza del flusso, per dirla in termini buddhisti. In questo senso, Percepire apticamente vuol dire agire patendo, fare senza afferrare, mollare la presa agendo. Ora, l’esperienza dell’estetico mi pare esprimere nel modo più chiaro questa possibilità: né oggettiva né soggettiva, questa esperienza è relazionale in tale senso: singolare e universale, particolare ma relata, qui-e-ora ma anche ovunque-e-sempre.

C: I discorsi sulla realtà aumentata e quella immersiva sono sempre più al centro del dibattito filosofico. Tu invece, provocatoriamente, intitoli un intero capitolo «contro l’immersività». Qual è, in questo caso, il bersaglio polemico?

NP: Il bersaglio polemico è il modello progettuale e impositivo, profondamente dualistico, dei designers di esperienze e, peggio ancora, dei promotori di emozioni. Progettare (e naturalmente poi vendere) l’immersività riporta al paradosso del doppio vincolo dal quale già Bateson metteva in guardia: “sii libero!” potrebbe corrispondere all’odierno “sii immersivo!”. La realtà aumentata, o il cosiddetto “virtuale”, potrebbe naturalmente essere una grande occasione di apertura e avventura a percepire e sperimentare ordini del reale; però, oggi ciò di solito viene inteso e praticato come uno spazio ben delimitato, una domenica della vita, dove tutto sotto controllo, poco o nulla trasformativo. Ovviamente, ci sono eccezioni. Però in questo tipo di esperienze costruite a tavolino il fruitore resta perlopiù un consumatore passivo. A me interessa una nuova ecologia del percepire per cui l’immersività non è un’esperienza che si fa pagando un biglietto. Il modello programmaticamente immersivo presuppone l’illusione di un’emersione, e dunque ribadisce un dualismo: dento/fuori, ego/mondo, isolamenti/interazione. Invece, si è sempre immersi, relati, e non si riemerge e non ci isola mai; ovviamente questo non va inteso sul piano personale delle relazioni, dello stare con gli altri in senso materiale. Essere in relazione non significa avere relazioni, anzi. È una questione di densità: attraverso questa consapevolezza, che è la soglia del percepire aptico, è possibile una “liberazione” dal dualismo lineare e oculo-centrico. L’aptico esprime il bisogno di portare l’immersivo nel quotidiano e nell’ordinario, senza che si debbano creare spazi di immersività e extra-ordinari i quali replicano l’equivoco dell’ecologia espressa dalle aree protette e dai parchi alla Yellowstone: dentro il perimetro, la natura incontaminata da ammirare in gita; fuori invece la devastazione quotidiana.

C: In Italia si parla di OOO solo da poco tempo e, con il tuo lavoro, arrivano anche le prime critiche a questa corrente di pensiero, attraverso la proposta di sostituire l’OOO con una OOP. Cosa intendi, e da quali presupposti nasce questa idea?

NP: Passare da un’ontologia orientata agli oggetti a un’ontogenesi orientata ai processi significa smarcarsi dall’idea che ci sia qualcosa indipendentemente dal “con”, cioè dalla relazione. Quest’idea dell’indipendenza del mondo e degli oggetti che intende separare essenza da esistenza, ontologia da vita, è quanto intendo mettere in discussione in questo lavoro. La critica della OOO parte dall’idea che una filosofia del processo – e molti autori della OOO si ritengono filosofi del processo – non può che essere relazionale; a mio avviso, recepire radicalmente la processualità implica l’abbandono percettivo – quindi sensibile e cognitivo – di ogni datità. Inoltre, suggerendo l’implicazione necessaria tra oggettivismo e soggettivismo, avanzo il sospetto che alla fine la OOO sia, contro le sue intenzioni e paradossalmente, un ultra-raffinato antropocentrismo. Dunque la mia proposta è di abbandonare OOO, l’ontologia orientata agli oggetti, per OOP!, un’ontogenesi orientata ai processi, la quale consente di sentire/pensare coerentemente il modello simbiotico, condominiale, conviviale, coscienziale che oggi biologi, fisici, antropologi, psicologi, e alcuni filosofi suggeriscono. La OOP! corrisponde ad esso, all’estetica senza (s)oggetti; mentre OOO rimane molto più tradizionalmente nel paradigma dualistico (s)oggettuale, e dunque il suo modello è ego, l’estetica governata dagli oggetti.

C: Sei traduttore e curatore di Tim Ingold. Come mai “proprio lui e non altri”, e in che modo ciò ha influenzato il tuo pensiero e il tuo ultimo lavoro? Ci sono altri pensatori senza i quali, potremmo dire, il tuo lavoro non sarebbe stato lo stesso?

NP: Ho incontrato Tim Ingold nel 2007, leggendo The Perception of the Environment, e da allora ho praticato il suo pensiero. Trovo che Ingold sia uno dei più vivaci e coraggiosi autori contemporanei non solo per i contenuti che propone ma anche – e forse soprattutto – per la modalità con cui questi contenuti vengono esposti e presentati nella scrittura. È una modalità che mi ha subito affascinato e che nel tempo mi ha molto nutrito, anche perché è assai diversa da quella convenzionale in cui le espressioni del pensiero prima di essere condivise devono essere assicurate: Ingold pensa liberamente, senza assicurazione. Così, egli ha molto influenzato i miei ultimi lavori, anche nel senso di spingermi a un approccio sincretistico, poco attento alle etichettature e agli steccati disciplinari. In questo ultimo libro la nozione di corrispondenza, che credo sia uno dei pilastri più importanti per comprendere esso, proviene da Ingold. In generale, ci sono tanti filosofi e autori a cui devo molto e che hanno contribuito da vari punti di vista a formare la mia prospettiva: Derrida, Vico, Dewey, Rorty… è un panorama molto variegato e anche assai eterogeneo, persino discordante. In questo ultimo libro in particolare, direi che i punti di riferimento principali sono stati: Aldo Giorgio Gargani, che è stato mio primo maestro a Pisa; tra i classici, Ludwig Wittgenstein, che è stato essenziale per una certa concezione dell’estetica; poi François Jullien per le nozioni di scarto e di lateralità; e infine Arnold Berleant e naturalmente e soprattutto, il fisico teorico Carlo Rovelli, con il quale si apre il capitolo principale. Ma vi sono anche molte altre persone che costellano il paesaggio frastagliato, accidentato e un po’ oscuro di questo libro: è opportuno ricordare ancora Emilio Del Giudice, Elémire Zolla, Michel Serres, Pavel Florenskij; e poi naturalmente Timothy Morton, che critico ma verso il quale nutro un sentimento filosofico assai ambivalente.

C: Molto rilevante nel tuo libro è il vocabolo umanare, inteso come “fare umanità” – un termine che può essere inteso come un’espansione del concetto di worlding usato da antropologi come Viveiros de Castro e Descola. In questo senso, l’umano è perciò qualcosa che si produce a posteriori da una certa modalità, o postura, di pensiero? Il tuo approccio è anti-essenzialista, oppure persiste qualcosa che caratterizza l’umano e da cui è possibile mettere in atto il processo di umanazione?

NP: Sono convinto che si possa essere ecologici, non antropocentrici ovvero ego-centrati, senza essere post-umani, cyborg e ultra-umani. Il compito è diventare umani, continuamente.  L’umanità è un potenziale. “Umano” non è un sostantivo ma, appunto, un verbo: un diventare-umano. Non dunque: “restiamo umani” ma “diventiamo umani”. Non si tratta però di un divenire che realizza una precondizione data, un’ontologia già fissata a cui occorre attenersi. Ancora Ingold ha proposto di pensare questo passaggio, che nella lingua inglese si comprende meglio: si tratta di passare da “becoming human” a “human-becoming”. Quindi direi che non c’è un’identità dell’umano se non quella della sua storia; ma la storia è passaggio, si fa, non è ontologia. Ciò che l’umano è (stato) è un’indicazione per ciò che l’umano può ancora essere: è un compito. Un compito che ha come fine il vivere, nient’altro che questo. Sostenibilità significa: portare avanti la vita, non la vita individuale ma una vita, per dirla con Deleuze. L’immanenza del vivere come tale. Un’immanenza che non è però solo “materialità” (la materia è un’astrazione che presuppone il suo opposto, sempre in una prospettiva dualistica). Percependo, co-creiamo e con-dividiamo il mondo; siamo un con-dominio. Ci troviamo insieme a miliardi di altri viventi per portare avanti “il mondo” come manifestazione della coscienza. Questo consapevole percepire ha molte potenzialità probabilmente ancora inesplorate.

Nicola Perullo è filosofo e docente di Estetica presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Il suo ultimo libro continua il percorso già iniziato coi precedenti lavori, tra tutti Estetica ecologica. Percepire saggio, vivere corrispondente (Mimesis, 2020), ma riprendendo anche, nei singoli capitoli, le riflessioni già proposte in Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto (Mimesis, 2016) e Il gusto non è un senso ma un compito (Mimesis, 2018). 

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