Mito e Mass Media

by / 6 Aprile 2023

I Media Studies sono una disciplina relativamente giovane – di una giovinezza dirompente, febbrile, affamata. Non ci sarebbero stati i Media Studies senza Marshall McLuhan1 e, forse, non ci sarebbe stato McLuhan senza il divampare dell’era elettronica e dei mass media. Il modo in cui i i mezzi di comunicazione di massa hanno modellato la società ha reso necessario porsi alcune domande, le quali hanno indicato una strada interminabile che scompare oltre l’orizzonte. In questo saggio del 1959, McLuhan anticipa alcune delle sue intuizioni più preziose riguardo a come, e a quale scopo, comprendere il linguaggio dei media — il volto multiforme del linguaggio stesso — e i miti attraverso i quali strutturiamo le nostre cosmologie. Nel mezzo di una nuova rivoluzione dei media, quella social e intelligente, risulta chiaro che non abbiamo letto abbastanza McLuhan; o meglio: non abbastanza attentamente.

______________________________________

This essay was originally published in Daedalus, Vol. 88, No. 2, Myth and Mythmaking (Spring, 1959), pp. 339-348

Quando si tenta di portare il concetto relativamente articolato di “mito” nell’area dei media – un concetto a cui in passato è stata dedicata un’attenzione sorprendentemente scarsa –  per arrivare a qualcosa di concreto, è necessario riconsiderare sia il “mito” che i “media”. La lingua inglese, ad esempio, è di per sé un mezzo di comunicazione di massa [un mass medium], come qualsiasi lingua utilizzata da una certa società. Ma l’uso generale dell’espressione “mezzi di comunicazione di massa” sembrerebbe anticipare una valutazione sfavorevole nei confronti dei nuovi media, soprattutto dopo l’avvento del telegrafo, del telefono, delle immagini in movimento, della radio e della televisione. Questi mezzi di comunicazione hanno avuto lo stesso tipo di effetto drastico sulla lingua e sulla cultura che la stampa ha avuto in Europa nel XVI secolo, o che sta avendo attualmente  in altre parti del mondo.

Sarebbe addirittura opportuno evitare un’espressione così pregna di denotazione come lo è “mass media“, almeno fino a quando non si potrà riflettere un po’ più a fondo, fino al cuore della questione. Le lingue, come artefatti umani, prodotti collettivi dell’abilità e del bisogno, possono essere facilmente intese come “mezzi di comunicazione di massa”; molti trovano però difficile comprendere allo stesso modo i nuovi mass media – che da queste lingue derivano – come nuovi “linguaggi” in tutto e per tutto. La scrittura, nelle sue diverse modalità, può essere considerata, a livello tecnologico, come lo sviluppo di nuovi linguaggi. Tradurre l’udibile in visibile attraverso strumenti fonetici, infatti, significa istituire un processo dinamico che rimodella ogni aspetto del pensiero, del linguaggio e della società. Registrare il funzionamento esteso di tale processo in un mito, che sia della Gorgone o di Cadmo, significa ridurre una complessa vicenda storica a un’immagine inclusiva senza tempo. Possiamo forse azzardare l’ipotesi che nel caso di una singola parola, il mito sia presente come un’unica istantanea di un processo complesso? E che, nel caso di un mito narrativo, con le sue peripezie, un processo complesso sia registrato in un’unica immagine comprensiva? Il montaggio a più livelli o  la “trasparenza”, con la sua riduzione delle relazioni logiche, è qualcosa di familiare, ravvisabile nella pittura rupestre così come nel cubismo.

Le culture orali sono simultanee nelle loro modalità di divenire-coscienti. Oggi ci riavviciniamo all’oralità attraverso i media elettronici, che abbattono lo spazio, il tempo e le relazioni monopiano, riportandoci nel vortice di relazioni multiple sovrapposte e conviventi. Se una lingua creata e utilizzata da molte persone è un mezzo di comunicazione di massa, uno qualsiasi dei nostri nuovi media è allora, in un certo senso, una nuova lingua, una nuova codifica dell’esperienza raggiunta collettivamente grazie a nuove abitudini di lavoro e a una consapevolezza collettiva e inclusiva. Eppure, quando questa nuova codifica ha raggiunto lo stadio tecnologico della comunicabilità e della ripetibilità, non è forse diventata, come una lingua parlata, anche un macromito? Quanto devono essere compressi gli elementi di un processo prima di poter dire che hanno chiaramente assunto la forma del mito? Siamo pronti a soffermarci sul fatto che il mito sia una riduzione dell’esperienza collettiva a un contenuto visivo e classificabile?

Le lingue, che siano vecchie o nuove, in quanto macromiti, hanno quel rapporto con le parole e con la creazione di parole che caratterizza il mito nella sua portata più ampia. Le competenze e le esperienze collettive che costituiscono sia le lingue parlate che i nuovi linguaggi, come il cinema o la radio, possono essere certo considerate, al pari dei miti precedenti, come modelli statici dell’universo. Ma non è forse che tendono, come le lingue in generale, a essere modelli dinamici dell’universo in azione? In quanto tali, i linguaggi, vecchi e nuovi, sembrano destinati alla partecipazione, piuttosto che alla contemplazione o alla consultazione e classificazione. Un altro modo per cogliere questo aspetto delle lingue come macromiti è affermare che il medium è il messaggio. Solo incidentalmente, per così dire, tale medium è un mezzo specializzato di significazione o di riferimento. A lungo andare, per mezzi di comunicazione o macromiti come l’alfabeto fonetico, la stampa, la fotografia, il film, il telegrafo, il telefono, la radio e la televisione… l’azione sociale di queste forme è anche il loro messaggio o significato, nel senso più generale.

La lingue è, da un certo punto di vista, poco influenzata dall’uso che ne fanno gli individui. Da un’altra prospettiva, però, essa modella quasi interamente il carattere di ciò che viene pensato, sentito o detto da chi lo usa, e può essere completamente ristrutturato dall’intrusione di un’altro linguaggio, così come il parlato è stato modificato dalla scrittura e la radio dalla televisione. Diciamo allora che ciò che oggi ci interessa in quanto “mito” è dunque – una fotografia o un “fermo immagine” di un macromito in azione? Allo stesso modo per cui una parola pronunciata è un arresto uditivo di un movimento mentale, e la traduzione fonetica di quel suono in un’equivalenza visiva è un’immagine congelata dello stesso, il mito non è forse un mezzo di astrazione statica dal processo in atto? Una sorta di processo di creazione mitica è spesso associata a Hollywood e alle agenzie pubblicitarie di Madison Avenue. Per quanto riguarda le pubblicità, esse cercano, almeno nelle intenzioni, di racchiudere in un’unica immagine l’azione o il processo sociale totale che viene pensato come desiderabile. In altre parole, una pubblicità cerca sia di informarci, sia di produrre in noi un’anticipazione di tutte le fasi di una metamorfosi, tanto privata quanto sociale. Mentre un mito potrebbe apparire come il resoconto di una metamorfosi estesa, una pubblicità procede preannunciando il cambiamento, e anticipando simultaneamente le cause con gli effetti e gli effetti con le cause. Nel mito, questa fusione ed esplorazione telescopica delle fasi del processo diviene una sorta di spiegazione, o una modalità di intelligibilità.

Quali sono i miti con cui gli uomini hanno registrato l’azione dei nuovi media sulla loro vita? È significativo il fatto che il mito di Edipo non sia stato trovato finora tra le società pre-letterate? Il ruolo dell’alfabetizzazione nella formazione dell’individualismo e del nazionalismo è cruciale anche sulle strutture di parentela? Il mito della Gorgone, ad esempio, sarebbe una considerazione circa l’interrompersi delle modalità di conoscenza a causa dell’alfabetizzazione? Senza alcun dubbio il mito di Cadmo, sulle lettere come denti di drago da cui emergono uomini armati di tutto punto, è una rappresentazione del modo in cui le dinamiche dell’alfabetizzazione contribuiscono alla creazione degli imperi. H. A. Innis nel suo Empire and Communications ci ha fornito un’esegesi completa di questo mito. È il mito della Gorgone, però, ad avere bisogno di un’esegesi molto più ampia, poiché riguarda il ruolo che i media hanno nell’apprendimento e nella conoscenza. Oggi, che con il computer è facile realizzare un volo di prova nella galleria del vento a partire dal semplice progetto digitale di un aereo, ci viene naturale portare tutti i dati di superficie nel dominio dell’interpretazione della profondità. La cultura elettronica accetta la simultaneità come riconquista dello spazio uditivo. Dato che l’orecchio capta il suono da tutte le direzioni contemporaneamente, creando così un campo di esperienza sferico, è naturale che anche le informazioni trasferite elettronicamente assumano tale stesso schema. A partire dal telegrafo, le forme della cultura occidentale sono state fortemente modellate da tale struttura sferica, che appartiene a un campo coscienziale in cui tutti gli elementi sono praticamente simultanei.

È questo carattere di immediatezza del campo informazionale odierno, inseparabile dai media elettronici, a conferire il carattere formale uditivo alla nuova cultura. Ciò significa, ad esempio, che dall’introduzione del telegrafo la pagina di giornale ha assunto un carattere formalmente uditivo e solo incidentalmente una forma lineare, letteraria. Ogni oggetto costituisce un mondo a sé stante, slegato da qualsiasi altro a parte che per la data. Questo assemblaggio di elementi costituisce una sorta di immagine globale in cui si incontrano maggiormente sovrapposizione e montaggio, ma poco spazio pittorico o prospettiva. Le informazioni trasmesse elettronicamente, essendo simultanee, assumono il modello del campo totale, come nello spazio uditivo. Anche le società preletterate vivono in gran parte in modalità uditiva o simultanea, con una coscienzialità inclusiva che caratterizza sempre più anche la nostra era elettronica. Lo shock traumatico del passaggio dallo spazio segmentale e lineare dell’alfabetizzazione al campo uditivo e unificato dell’informazione elettronica è del tutto diverso dal processo inverso. Ma oggi, mentre stiamo recuperando molte delle forme di coscienza preletterate, possiamo osservare allo stesso tempo numerose culture preletterate che iniziano il loro percorso attraverso le fasi culturali dell’alfabetizzazione.

L’alfabeto fonetico permette di tradurre l’udibile in visibile attraverso la soppressione del significato nei suoni delle lettere. Questa tecnologia astratta ha reso possibile una continua conquista unidirezionale delle altre culture da parte del mondo occidentale – lungi dall’essere conclusa. Sembra però che attraverso l’uso commerciale del telegrafo per più di un secolo, siamo stati capaci di aprirci all’arte e alla tecnologia orientale, nonché alle culture preletterate e uditive in generale. Dovremmo almeno prepararci a considerare con attenzione il carattere formalmente uditivo del telegrafo e delle successive forme elettroniche di codifica delle informazioni. Le cause formali insite in questi media, infatti, operano sulla materia dei nostri sensi. L’effetto dei media, come il loro “messaggio”, è davvero nella loro forma e non nel loro contenuto. 

È facile rintracciare alcuni degli effetti della scrittura fonetica, in quanto coincidono con le caratteristiche più familiari del mondo occidentale. La parola scritta foneticamente, di per sé immagine astratta di una parola parlata, permette un’analisi approfondita del processo, ma non incoraggia molto l’applicazione della conoscenza all’azione al di là della sfera verbale. Non è strano, quindi, che il mondo antico considerasse la conoscenza applicata sotto la modalità della retorica. La scrittura permetteva di catalogare tutte le singole posture della mente, chiamate “figure” retoriche, e queste diventavano quindi disponibili per tutti gli studenti in quanto mezzi diretti di controllo sulle altre menti. Il regno oligarchico di queste figure fu rapidamente liquidato dalla stampa – tecnologia che spostava l’attenzione dal pubblico di spettatori allo stato mentale del singolo lettore.

La scrittura ha fornito i mezzi per segmentare molte fasi del sapere e del fare. La conoscenza applicata attraverso la segmentazione lineare del movimento verso l’esterno arriva con la stampa, che è essa stessa la prima meccanizzazione di un tipo di artigianato antico. Mentre la scrittura aveva favorito la classificazione minuziosa delle arti e delle scienze, la stampa ha offerto l’accesso quasi istantaneo, e su un piano alla volta, a queste ultime. Mentre la cultura manoscritta richiede glosse e commenti necessari a estrarre i vari livelli di significato che racchiudeva per la coscienza, a causa della lettura necessariamente molto lenta, la stampa è essa stessa commento o spiegazione. La forma della stampa sta a un solo livello, e chi legge materiale stampato è fortemente predisposto a percepire il fatto che stia condividendo i movimenti di un’altra mente. La stampa ha spinto persone come Montaigne a esplorarla come una nuova forma d’arte, capace di fornire un elaborato mezzo di auto-indagine nell’atto di apprendere, così come l’autoritratto e l’auto-espressione.

Oggi viviamo, al contrario, in un mondo postletterato ed elettronico, in cui cerchiamo immagini di posture mentali collettive, anche quando studiamo l’individuo. Per certi versi, in passato il mito era il mezzo per accedere a tali posture collettive. Ma la nostra nuova tecnologia ci offre molti nuovi mezzi di accesso ai modelli dinamici di gruppo. Alle nostre spalle ci sono cinque secoli nei quali abbiamo goduto di un accesso ineguagliabile ad aspetti della coscienza privata attraverso la pagina stampata. Ora l’antropologia e l’archeologia ci permettono di accedere con la stessa facilità alle posture e agli schemi di gruppo di molte culture, tra cui anche la nostra.

Il nastro elettronico ha permesso l’accesso alla struttura e alle dinamiche di gruppo di intere lingue. Il mio suggerimento di considerare queste ultime, da un lato, come mezzi di comunicazione di massa e, dall’altro, come macromiti, sembra talmente ovvio da essere banale per tutti quei linguisti strutturalisti ai quali ho accennato queste tipologie di approcci. Ma può essere utile indicare alcune delle molte posture non verbali, sia individuali che pubbliche, che accompagnano i cambiamenti dei media. Ovvero: solitamente, una nuova forma non è che un insieme di elementi. Per fare un esempio, riferiamoci ai primissimi decenni della stampa, alla fine del XV secolo, quando le persone cominciarono ad appassionarsi alla camera oscura. All’epoca, la relazione tra questo interesse e il nuovo processo di stampa non fu subito pacifica. Eppure la stampa, di per sé, è una camera oscura che offre una visione privata dei movimenti altrui. Mentre si è seduti al buio, nella camera oscura si ha una presentazione cinematografica del mondo esterno. Nella lettura della stampa, il lettore agisce come una sorta di proiettore di immagini fisse, o di parole stampate, che può leggere abbastanza velocemente da avere la sensazione di ricreare i movimenti di un’altra mente. I manoscritti non potevano essere letti a una velocità tale da poter creare la sensazione di una mente impegnata attivamente nell’apprendimento e nell’espressione di se stessa; ma ecco, secoli prima della cinematografia, la magia e il mito del film. Forse, così come la camera oscura è stata la prima, il film è l’ultima fase della tecnologia di stampa.

Il film, che ha così poco in comune con la televisione, potrebbe essere l’ultima immagine dell’era Gutenberg prima della sua fusione con il telegrafo, con il telefono, con la radio e con la televisione, e della sua dissoluzione nel nuovo mondo dello spazio uditivo. E mentre le abitudini di lettura della stampa creano forme intense di individualismo e nazionalismo, i nostri media elettronici istantanei non ci riportano forse alle dinamiche di gruppo, sia a livello teorico che pratico? Non è forse questo cambiamento nei media la chiave della nostra naturale preoccupazione per il concetto e la rilevanza del mito oggi?

La stampa ha evocato sia l’individualismo che il nazionalismo nel XVI secolo, così come lo farà ancora in India, Africa, Cina e Russia. Questo perché essa richiede abitudini di iniziativa solitaria e attenzione a prodotti esattamente ripetibili, che sono le abitudini inseparabili dall’industria, dall’impresa, dalla produzione e dalla commercializzazione. Dove la produzione precede l’alfabetizzazione, non esiste un mercato uniforme né una struttura dei prezzi. La produzione industriale senza mercati consolidati e senza alfabetizzazione rende il “comunismo” necessario. Lo stato di ignoranza dei nostri media è tale che ci sorprende scoprire che la radio ha effetti molto diversi in una società orale rispetto che nella nostra cultura altamente alfabetizzata. Allo stesso modo, il “nazionalismo” di un mondo orale è strutturato in modo molto diverso dal nazionalismo di una nuova società alfabetizzata. Parrebbe che vedere la propria lingua madre valorizzata dal possedere la tecnologia della stampa sprigioni una nuova visione di unità e potere, che rimane ancora oggi una forza di divisione subliminale in Occidente. L’inconsapevolezza degli effetti dei nostri media negli ultimi duemila e più anni sembra essere essa stessa un effetto dell’alfabetizzazione che James Joyce definiva “ab-ced”, o distrazione.

Il sentimento di nazionalismo spaziale e territoriale che accompagna l’alfabetizzazione è rafforzato anche dalla stampa, che fornisce non solo il sentimento, ma anche gli strumenti burocratici centralizzati di controllo uniforme applicato su larga scala. Forse tendiamo a definire il mito in maniera troppo letteraria, come qualcosa che può essere verbalizzato, narrato e scritto. Se possiamo considerare tutti i media come miti, e come fonte prolifica di molteplici miti subordinati, perché non riusciamo a individuare l’aspetto mitico della contemporanea attività dell’hula-hoop? Ecco un mito che stiamo vivendo. In molti si sono interrogati sul fatto che oggi i bambini si rifiutano di far rotolare questi hula-hoop sulle strade o sulle passeggiate. Solo trent’anni fa, il destino di tale oggetto sarebbe stato proprio quello di rotolare. I bambini invece rifiutano l’uso lineare del cerchio in uno spazio esterno; lo usano come mezzo per generare il proprio spazio. Ecco quindi un modello, o un dramma in diretta, del potere mitico dei nuovi media di alterare la sensibilità. Questo cambiamento nel comportamento dei bambini non ha nulla a che fare con idee o programmi.

Tale modifica nell’atteggiamento nei confronti della forma e della presenza spaziale è definitivo allo stesso modo di come lo è stato il passaggio dall’immagine fotografica a quella televisiva. Nel suo Prints and Visual Communication (Londra: Routledge and Kegan Paul, 1953), William M. Ivins spiega che il lungo processo di cattura del mondo esterno nella “rete della razionalità”, attraverso la linea dell’incisore e una sintassi sempre più sottile, sia infine giunto alla sua realizzazione nella fotografia; essa è affermazione totale dell’oggetto esterno senza sintassi. Questo tipo di peripezia è caratteristica di tutti gli sviluppi dei media, ma nella televisione il fatto eclatante è che l’immagine è definita dalla luce che l’attraversa, e non dalla luce che la illumina. È questo fatto che separa la televisione dalla fotografia e dal cinema, ponendola in una relazione profonda con il vetro colorato. Il senso spaziale generato dall’esperienza televisiva è completamente diverso da quello dell’oggetto cinematografico. Tale differenza non ha naturalmente nulla a che fare con il “contenuto” o la programmazione del medium televisivo. Ancora, il medium stesso è il messaggio finale. Il bambino recepisce questi messaggi, quando sono nuovi, molto prima dell’adulto. Quest’ultimo, infatti, ritarda istintivamente il divenire-cosciente di questi cambiamenti, che potrebbero disturbare il suo confortevole ordine di percezione o la sua esperienza di vita. Il bambino sembra non avere un tale interesse per il passato, almeno quando si trova di fronte a una nuova esperienza. 

A mio avviso, un nuovo orientamento spaziale come quello che si verifica nel formato della stampa dopo l’avvento del telegrafo, la rapida scomparsa della prospettiva, è manifesto anche nei nuovi paesaggi di Rimbaud in poesia e di Cézanne in pittura. E nel nostro tempo Rouault ha anticipato di decenni la modalità dell’immagine televisiva – mi riferisco al suo uso del vetro colorato come mezzo per definire l’immagine. Il potere che un medium possiede nel creare miti, essendo esso stesso una forma di mito, appare ora nell’era post-letteraria come il rifiuto del consumatore a favore del produttore. Il film può essere inteso come l’apice della società consumistica, essendo nella sua forma il mezzo naturale sia per fornire che per glorificare beni e atteggiamenti di consumo. Ma nelle arti del secolo scorso si è passati dalla confezione per il consumatore alla fornitura di kit per il fai-da-te. Lo spettatore o il lettore devono ora essere co-creatori. Il nostro sistema educativo è naturalmente in ritardo rispetto allo sviluppo dei media popolari, in questo scenario di cambiamento radicale. I giovani, attraverso l’esposizione all’immagine televisiva, ricevono subito un orientamento generale in materia spaziale che rende la linearità della parola stampata un linguaggio lontano ed estraneo. Per loro, la lettura dovrà essere insegnata come se fosse un’araldica o una pittoresca codificazione della realtà. Gli assunti sulla lettura e sulla scrittura che hanno accompagnato la monarchia della stampa e la relativa ascesa delle forme industriali, non sono più validi o accettabili per coloro che si stanno riformando nella loro sensibilità durante quest’era elettronica. Chiedersi se ciò sia bene o male significa esprimere il pregiudizio della causalità efficiente, che è per natura quello dell’uomo della parola stampata, ma è anche un inutile gesto di inadeguatezza rispetto alla situazione reale. I valori dell’era Gutenberg non possono essere salvati da chi non sa né come sono nati né perché sono in via di liquidazione.

Non è necessario un accordo filosofico tra coloro che sono concordi sul fatto che l’operatività insistente delle forme mediali sulla sensibilità e sulla consapevolezza umana sia una situazione osservabile, intelligibile e controllabile. Oggi, quando la coscienza ordinaria è esposta simultaneamente a modelli diversi di media, diventiamo più attenti alle proprietà uniche di ciascuno di essi. Possiamo vedere sia che i media sono “immagini” mitiche, sia che hanno il potere di imporre subliminalmente, per così dire, i propri presupposti. Possono essere concepiti, al contempo, come spiegazioni intelligibili di grandi periodi di tempo e dell’esperienza di molti processi, e possono essere usati come mezzi per perpetuare i pregiudizi e le preferenze che codificano nella loro stessa struttura. Non è strano che da tempo ci ritroviamo ossessionati dall’aspetto letterario e “contenutistico” del mito e dei media. La dicotomia “forma” e “contenuto” è nativa delle forme di codificazione astratte, scritte e stampate, tanto quanto lo è la dicotomia “produttore” e “consumatore”.

Purtroppo per la programmazione e il controllo dell’educazione, il pregiudizio letterario è del tutto incapace di far fronte alle nuove “immagini” dell’età postletteraria. A causa dell’utilizzo di una lente legata alla lettera stampata per pensare i nuovi media, i dati rilevanti che derivano da questi ultimi sfuggono al nostro esame. Il mio libro, The Mechanical Bride: Folklore of Industrial Man, ne è un esempio. Puntare le armi della letteratura sulla nuova iconologia del mondo di Madison Avenue è qualcosa di semplice. Svelare il meccanismo in un’epoca postmeccanica è semplice allo stesso modo. Ma all’epoca non mi resi conto che eravamo già usciti dall’era meccanicistica per entrare in quella elettronica, e che era questo fatto a rendere il meccanismo invadente e ripugnante. Una delle grandi novità apportate dalla stampa fu la creazione di un nuovo senso dello spazio interno e di quello esterno. Ci riferiamo a questo fenomeno come alla scoperta della prospettiva e alla nascita della rappresentazione nelle arti. Lo spazio della “prospettiva” condizionata da una posizione artificialmente definita per lo spettatore porta a racchiudere gli oggetti in uno spazio pittorico. Eppure, questo nuovo spazio era così rivoluzionario e astratto che i poeti lo evitarono nel loro linguaggio per ben due secoli da quando i pittori lo avevano invece abbracciato. Si tratta di un tipo di spazio molto poco congeniale ai mezzi di comunicazione del linguaggio e delle parole. Si può avere un’idea delle pressioni psichiche esercitate dalla stampa nell’opera di William Blake, che cercava nuove strategie culturali per reintegrare lo spirito umano segmentato e fratturato.

L’esplicita creazione di miti di Blake è in effetti il più grande monumento e antidoto alle pressioni mitiche della stampa, alla “visione unica e al sonno di Newton”. La matrice dei caratteri mobili, infatti, contiene la totalità dell’industrialismo nonché i mezzi di conquista globale che, con una piroetta, hanno portato il mondo preletterato ancora una volta nel cuore della metropoli industriale. La concezione più in voga per cui i mass media esercitano un’influenza nefasta sullo spirito umano ha radici singolari. Come ha dimostrato Marjorie Nicolson in Newton Demands the Muse, fu l’Ottica di Newton a insegnare ai poeti la corrispondenza tra mondo interno e mondo esterno, tra la struttura del vedere e la struttura della scena. Questa nozione ha fatto nascere nei poeti l’ambizione di ottenere il controllo sulla vita interiore attraverso un calcolo della composizione del paesaggio. L’idea di un paesaggio costituito verbalmente, come leva sull’occhio psichico dell’uomo, era una dicotomia abbastanza congeniale alla cultura della parola stampata. Mentre, da Rimbaud in poi, il paesaggio esterno è stato abbandonato a favore del paesaggio interiore, Madison Avenue si aggrappa nuovamente al concetto romantico di controllo del consumatore per mezzo di scene che hanno come soggetto l’esteriorità. La recente ondata di pubblicità “subliminale” indica il ritardo nello spostamento dell’attenzione dal paesaggio esteriore a quello interiore che si è verificato in molte arti alla fine del XIX secolo. Il mito, infatti, è sempre un montaggio,  una trasparenza, che comprende diversi spazi e tempi esterni l’uno all’altro in un’unica immagine o in una singolare situazione. Tale compressione, o multistrato, è una modalità ineludibile di movimento elettronico e simultaneo dell’informazione, sia nei media popolari che nella speculazione esoterica. È quindi normale che l’intrattenimento accademico ponga l’accento sul “contenuto”, dando prova di un assoluto analfabetismo nei confronti dei media, vecchi e nuovi. Proprio per questo oggi dobbiamo sforzarci di possedere molteplici linguaggi culturali, anche per gli scopi quotidiani più ordinari.

Il giornale servirà come esempio della Babele dei miti o delle lingue. Nei tempi in cui le informazioni arrivavano da ogni parte contemporaneamente, il giornale diventava un’istantanea del mondo in un dato  momento, e la “prospettiva” nelle notizie diventava priva di significato. Gli editoriali potevano ancora cercare di collegare alcuni articoli in una catena o in una sequenza che possedesse un punto di vista speciale, o un punto di fuga, ma tali punti di vista erano in realtà capsule per lettori passivi, mentre, paradossalmente, le notizie grezze, non elaborate e non intercalate, offrivano al lettore una sfida più grande nell’estrarre i propri significati personali. Oggi è facile capire come Edgar Allen Poe, sia nelle sue poesie simboliste che nei suoi racconti polizieschi, avesse anticipato questa nuova dimensione mitica dell’orientamento del produttore, portando il pubblico all’interno del processo creativo stesso. Allo stesso modo, è facile capire come le notizie spot della stampa telegrafica agiscano davvero come i punti yes-no, black-white, della fotografia telegrafica nella creazione di un’immagine comprensiva del mondo. Tuttavia, ancora oggi gli sponsor dei media pre-elettronici continuano a sovrapporre al nuovo mito iniezioni del mito precedente, creando ibridi come la “carrozza senza cavalli”, nell’interesse di una cultura superiore.


Lo stesso tipo di confusione esiste nell’istruzione per quanto riguarda il concetto di “ausili audiovisivi”. Sembrerebbe che sia necessario fare nell’educazione quello che hanno fatto i poeti, i pittori e i compositori, cioè purificare i nostri mezzi di comunicazione e testare e definire i loro poteri unici prima di tentare concerti wagneriani. Il mito di Gutenberg non è stato un mezzo per modificare il mito di Cadmo, così come il mito di Henry Ford non ha modificato il cavallo e il calesse. La cancellazione è avvenuta, come avverrà con il film sotto l’impatto della televisione, a meno che non si scelga di limitare l’operazione della forma sulla forma con uno studio e una strategia adeguati. Per quanto riguarda tutti i miti e i media siamo giunti a questo punto. Possiamo, forse dobbiamo, diventare maestri di alchimia culturale e storica. A questo scopo possiamo, a mio avviso, trovare i mezzi nello studio dei media come lingue e delle lingue come miti. Perché la nostra esperienza con la grammatica e la sintassi delle lingue può essere messa a disposizione per la direzione e il controllo dei nuovi e dei vecchi mezzi di comunicazione.

  1. A. Kuskis, “Marshall McLuhan as Educationist: Institutional Learning in the Postliterate Era”, in Exploration in Media Ecology, Vol. 10, Issue 3-4, 2011, pp. 313-333
Condividi:

Ti è piaciuto l'articolo?