Il feticcio apocalisse

by / 1 Novembre 2022

In lingua originale è stato pubblicato su The Occupied Times.

Chiunque sia andato in giro per l’Europa o il Nord America a tenere conferenze o seminari sulla politica ambientale, riconoscerà come familiare quanto sto per descrivere. C’è sempre un momento in cui, dal nulla, qualcuno del pubblico seduto in prima fila si alza in piedi. Il suo fine sarà quello di domandare ad alta voce quale sia lo scopo di tutta questa discussione [sull’ambiente], visto che il mondo sta andando in malora a gran velocità. L’individuo in questione procederà a stilare un elenco degli spaventosi processi in atto: almeno tre “limiti planetari” su nove sono già stati violati. L’umanità si è appropriata ormai del 20-40% della produzione primaria netta della natura. La percentuale di anidride carbonica atmosferica è oggi superiore a quella di 10/15 milioni di anni fa, quando il livello del mare era di 30 metri superiore a quello attuale. Se le temperature continuassero a salire, portando al rilascio di anche solo una piccola parte del carbonio ancora rinchiuso nel suolo e nei fondali oceanici dell’Artico, saremmo tutti fottuti. Se rimanesse qualche dubbio sul fatto che l’apocalisse sia davvero alle porte, basterebbe guardare a tutte quelle civiltà del passato che sono crollate (l’Isola di Pasqua e i Maya vengono regolarmente evocati) e che non hanno prestato attenzione ai “limiti ecologici”.

Il tono del discorso è quello di un cupo richiamo all’ordine. I presenti non hanno registrato i fatti, ed è chiaro che quindi si debba alzare il volume della voce. Perché starsene seduti a condividere esperienze di finanziarizzazione, razzismo ambientale o chiusura dei beni comuni, quando il cambiamento climatico sta per friggerci tutti? Non c’è tempo per la trasformazione sociale. Le élite al potere devono essere convinte ad agire nel loro stesso interesse. Tutto questo è talmente ovvio per il nostro personaggio in prima fila che a questo punto potrebbe prendere e andarsene – non tanto per protestare contro la banalità della conferenza o per una consapevole mancanza di rispetto nei confronti degli altri partecipanti, quanto per la sensazione che, ora che i presenti sono stati messi in guardia dalla situazione, sia giunto il momento di portare il messaggio altrove.

In una riunione come quella che ho descritto, al seguace dell’apocalisse in prima fila sarà rispettabilmente prestato orecchio. Si tratta di una persona, dopo tutto, in possesso di un impressionante corpo di ricerche e statistiche – e più che giustificata nell’insistere che lo status quo sia insostenibile. Tuttavia, è probabile che un paio di cose suscitino, giustamente, un tremito di inquietudine tra i presenti.

La prima è l’implicito rifiuto della politica di classe. Il ragionamento del seguace dell’apocalisse procede come segue. Stiamo parlando di una catastrofe che potrebbe uccidere tutti e tutto. Chi può avere interesse a provocarla? Non c’è più bisogno del progetto marxista di cercare di capire come l’accumulazione del capitale ricrei continuamente l’interesse umano per la distruzione, perché, ex hypothesi, nessuno potrebbe mai desiderare una distruzione di tale portata. Il cambiamento climatico catastrofico rende irrilevanti le distinzioni tra addetti alle pulizie delle camere d’albergo e gestori di hedge fund. Le “persone” diventano il soggetto politico universale. La politica climatica esce dall’ambito, ad esempio, della lotta di classe tra i lavoratori di Chicago e i finanziatori dei progetti energetici che inquinano i loro quartieri, o tra le bande indigene dell’Amazzonia e le compagnie petrolifere che depredano i loro territori. Diventa invece – per citare le parole del guru del movimento climatico statunitense Bill McKibben – una battaglia in cui generici “esseri umani” imparano collettivamente a sottomettersi al Grande Altro della “fisica e della chimica”.

Per il nostro seguace, lo spettro della catastrofe universale può sembrare un buon modo per radunare una classe media che potrebbe non soffrire direttamente dell’impatto della globalizzazione alimentata a combustibili fossili. Per molti ascoltatori, invece, appiattire il conflitto sociale esistente in questo modo risulta depotenziante. Se la minaccia di un collasso globale dovrebbe spronarci tutti all’azione concertata, perché allora sembra paralizzare l’immaginazione politica, spaventare la gente comune e indurla a mettere da parte i propri istinti di ribellione, spegnendo la discussione tra i diversi movimenti sociali sulle lezioni delle loro lotte? Perché porta così facilmente alla disperazione o all’indifferenza, o addirittura a una sorta di piacere sado-masochistico o pulsione di morte nella pornografia del destino? E perché i rimedi proposti – “abbiamo bisogno di un programma d’emergenza per mantenere le concentrazioni atmosferiche di CO2 equivalente al di sotto di 350 parti per milione” – suonano così campanilistici?

In effetti, invece di unificare le lotte politiche, le ossessioni apocalittiche sembrano spesso ridurre la politica trasformativa al punto di fuga. Slavoj Zizek ha osservato che mentre è proprio dalle lotte contro particolari forme di oppressione che “esplode una dimensione propriamente universale… che è direttamente vissuta come universale”, le campagne “post-politiche” contro astrazioni come la “CO2” soffocano l’espansione dei movimenti perché chiudono le possibilità alle persone di vedere le proprie lotte come una “condensazione metaforica” delle lotte di classe globali.

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Il problema più profondo dell’appello all’apocalisse non è forse che è fin troppo politico in modo pernicioso, invece che essere “apolitico”? Non è forse che risulta “depotenziante”, perché in effetti è fin troppo potenziante per le classi tecnocratiche e privilegiate?

Prendiamo le storie di apocalisse climatica, che attualmente rafforzano il vecchio trucco capitalista di dividere il mondo in monoliti discreti e indifferenziati chiamati Società e Natura, proprio quando il lavoro d’avanguardia della sinistra – spesso prendendo spunto dai movimenti dei popoli indigeni, dei contadini e dei comuni – si sta muovendo per minare questo dualismo. Nella visione apocalittica, una Natura fatalmente squilibrata si esteriorizza in quello che Neil Smith ha definito un “super-determinante del nostro destino sociale”, costringendo una Società completamente separata a omogeneizzarsi attorno a manager d’élite e alle loro soluzioni tecnologiche e organizzative.

Così i film sulle catastrofi – per non parlare delle narrazioni dei disastri trasmesse dai telegiornali ogni sera – non sono prodotti solo per alimentare la nostra subdola gioia per il caos. Essi presentano anche narrazioni di stars dalla mentalità tecnocratica che rispondono per nostro conto a minacce “esterne” in cui sono ritratte come se avessero avuto un ruolo limitato. Libri come Collapse di Jared Diamond, nel frattempo, sostituiscono le complicate storie politiche di sopravvivenza a lungo termine, di lotta e di rinnovamento creativo tra le civiltà come quelle degli abitanti dell’Isola di Pasqua o dei Maya, con favole di apocalisse e di estinzione in cui una società non europea dopo l’altra si autodistrugge a causa dell’incapacità dei suoi governanti di “gestire” la minaccia della natura. Con la “scomparsa” di interi popoli e dei loro adattamenti, questa manovra non fa altro che applicare al passato la tendenza apocalittica a nascondere la complessità dei conflitti attuali che coinvolgono imperialismo, razzismo e capitalismo.

Il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) segue la stessa procedura, evitando di indagare collettivamente i dettagli dell’accumulazione del capitale a favore di una narrazione semplicistica che contrappone la società a una natura composta da molecole di gas serra. Solo che, a differenza del seguace che, in visita alla riunione degli attivisti, sceglie di alzarsi e andarsene dopo aver parlato, l’IPCC è in realtà obbligato per legge a “presentare la scienza del riscaldamento globale” come se contenesse un messaggio privo di politica proveniente dalla Natura stessa, che non richiede alcuna discussione, e poi alzarsi e andarsene per permettere alla missiva asettica di affondare nella Società (ovvero i delegati alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici).

Sebbene non si possa certo accusarli di essersi tirati indietro dall’analisi delle dinamiche del capitale, un certo sapore di questo approccio permane anche tra alcuni pensatori di sinistra come John Bellamy Foster e Naomi Klein, i quali, contemplando l’apocalisse, sono tentati di ripiegare su scricchiolanti slogan cartesiani secondo i quali non solo il capitalismo agisce su una natura del tutto separata (“Capitalism’s War on the Earth”), ma la natura stessa acquisisce in qualche modo quella capacità a lungo ambita di rovesciare il capitalismo (“This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate”).

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Le storie di apocalisse hanno sempre a che fare con le regole. Ogni comunità, forse, racconta le proprie apocalissi, abbinate ai propri ideali di risposta elitaria o rivoluzionaria. L’apocalisse biblica di San Giovanni trova la sua risposta nell’amore infinito di Dio. Nell’Inghilterra del primo capitalismo, la minaccia di un’apocalisse data dalla ribellione di un proletariato emergente e sradicato fu contrastata, tra le altre cose, da una nuova disciplina del tempo astratto newtoniano che prometteva di tenere tutti in riga. Le visioni marxiste dell’apocalisse capitalista sono tipicamente abbinate a proiezioni di redenzione politica attraverso la rivoluzione. I millenaristi del Sud-Est asiatico hanno scommesso su una pulizia morale dell’ordine mondiale, come fanno alcuni survivalisti negli Stati Uniti contemporanei, dove la retorica religiosa dell’apocalisse è spesso andata di pari passo con l’estrattivismo dilagante e l’ideologia del libero mercato.

Il prototipo della storia moderna dell’apocalisse è forse quello di Malthus, con la sua visione del 1798 di orde incontrollabili che si riproducono e che, a caccia di terre, “affonderanno il mondo intero in una notte universale”. Contribuendo a giustificare il Poor Law Amendment Act del 1834, il racconto di Malthus ha anche alimentato le micidiali politiche di carestia del XIX secolo nell’India britannica, le polemiche del XX secolo di Garrett Hardin contro i beni comuni e il comunismo, e opera da fondamento non riconosciuto per innumerevoli rapporti economici della Banca Mondiale e progetti di ricerca in biologia e “gestione delle risorse naturali”. Trovando un eco nel discorso apocalittico di Enoch Powell sui “fiumi di sangue”, il concetto ossessiona anche le politiche di immigrazione dell’UKIP e di altri partiti politici britannici.

Un’influenza altrettanto duratura è stata l’apocalisse al rallentatore prefigurata dalla termodinamica del XIX secolo: la morte termica, quando il capitale non potrà più estrarre lavoro dall’universo, tutte le luci si spegneranno, assieme alle macchine. Sebbene questa particolare narrazione abbia smesso di essere oggetto dell’ossessivo rimuginare tra le classi intellettuali del Nord Atlantico nell’Ottocento, rimane attiva anche oggi, aleggiando come un fantasma sullo sfondo di ogni spinta post-tayloriana a sudare il lavoro e altre risorse, così come di ogni programma di risparmio energetico o dell’eccitato appello dei politici al “calore bianco della tecnologia” o alla “maggiore efficienza per la competitività nazionale”.Anche nel dibattito sul riscaldamento globale, l’apocalisse è stata invocata soprattutto per dirci cosa succederà se non adottiamo pratiche commerciali innovative. Il famoso documentario di Al Gore, Una scomoda verità, ha aumentato l’ansia degli spettatori per il riscaldamento globale invitandoli a pensare a se stessi come a rane che vengono lentamente bollite vive, per poi culminare con un inno alla competizione capitalistica e alla “risorsa rinnovabile” della “volontà politica” degli Stati Uniti. In Carbon, un video della campagna sul clima della Fondazione Leonardo di Caprio dell’agosto 2014, le vignette di un “robot dei combustibili fossili” furioso, simile a un Transformer e senza volto umano, che calpesta il pianeta facendo scempio di tutti gli esseri viventi, si alternano a interviste con blandi tecnocrati e politici nordamericani ed europei che parlano di prezzi del carbonio come soluzione a tutti i nostri problemi climatici. Quale metà di questa visione composita sia più terrificante è, per me, una questione totalmente aperta.

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