Falso colore/vita reale: La cromopolitica e la photo-fiction di François Laruelle

by / 24 Aprile 2023

Traduzione a cura di Arianna Diazzi, Filippo Scafi, Tommaso Garavaglia.

La volontà di restituire il “realismo” della visione ha per lungo tempo condizionato il rapporto tra pellicola cinematografica e colore: fin dal cinema delle origini, sia il bianco e nero che le pratiche rudimentali di colorizzazione sono stati chiamati a riprodurre quella che chiamiamo realtà. Ma cos’è un colore? E quale relazione intercorre tra quest’ultimo, la realtà e i limiti dello sguardo umano? Yvette Granata, a partire dall’equazione tra colore e segno, illustra come le scelte, operate durante la storia del cinema, relative alla saturazione, alla struttura e al contrasto dell’immagine non sono state guidate da esigenze tecniche, ma da precise scelte politiche. Scelte che continuano a operare in qualsiasi tecnologia di ottimizzazione della visione, anche oggi.

This article was originally published on Necsus, Spring 2017

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Rispondendo a un giornalista che richiedeva una giustificazione circa la quantità di violenza presente in Pierrot le Fou (1965), Godard sosteneva che non vi fosse traccia di sangue nei suoi film, ma solamente del colore rosso1. Questa sua risposta apre la strada a una nuova modalità di approcciarsi al colore, considerando non solamente le sue proprietà rappresentazionali, ma tenendo conto anche del realismo delle sue politiche non rappresentative. Il sangue e il suo rosseggiare2 non sono intercambiabili; il rosseggiare non è lo stesso del sangue della vera violenza. 

La questione di cosa sia vero in relazione a ciò che è rosso ha nel tempo attraversato diverse discipline. In ambito filosofico, il colore è alla base di una serie di interrogativi metafisici che includono la natura della “realtà fisica”, dell’esperienza, della mente, le limitazioni di ciò che è fattuale e le trasgressioni di ciò che è empirico. Nelle teorie del cinema e dei media, a differenza che in altre discipline, non si incontrano solamente questioni legate alla metafisica del colore e alla realtà – ​​ ciò che è “reale” contrapposto a ciò che è l’esperienza soggettiva del colore –  ma si incontrano anche interrogativi relativi al rapporto che intercorre tra il colore e la realtà della violenza e della morte, il reale del mondo socio-politico. Nell’arco della tradizione del realismo cinematico, il dibattito teoretico ha sempre incorporato in sé tanto il realismo socio-politico quanto alcune questioni relative all’ontologia del cinema e alla metafisica della realtà. I primi teorici del cinema e dei media si trovavano infatti a discutere di quale fosse l’intersezione tra la metafisica del colore e la violenza, tra il colore e la morte, tra il colore e un corpo morto. Come fa notare Godard, il vero problema non è se il rosso sia o meno una proprietà del sangue in quanto oggetto; la vera questione è se il rosseggiare e il sangue, quello generato dalla violenza, possano esser considerati una sola cosa o meno.

L’eventualità di poter riunire o meno le cose, di mettere insieme il reale e il mondo, rappresenta da tempo il fulcro del lavoro di François Laruelle. Nel suo più che decennale progetto di non-filosofia, Laruelle lamenta di come la filosofia abbia sempre dipinto se stessa come sostenitrice della verità, nonostante l’oggetto della sua descrizione, seppur sotto mentite spoglie, fosse il Reale. Secondo Laruelle, la filosofia ha utilizzato ogni tipo di materiale come oggetto della propria  disciplina della Verità, tranne che se stessa. Il metodo della non-filosofia, perciò, comprendendo al suo interno il concetto di immanenza radicale, mutua il metodo della filosofia e dunque il modo attraverso il quale si arriva a sostenere la “verità”. In altri termini, nel lavoro di Laruelle l’immanenza radicale è reale, e dunque, come sottolinea Ray Brassier, l’oggetto della non-filosofia non è il reale, che non è mai oggetto, nemmeno un oggetto non pensabile, ma la specularizzazione filosofica degli oggetti reali3. Il lavoro di Laruelle è dunque una sorta di teoria del cinema della filosofia. Come John Ó Maoilearca fa notare nel suo libro sulla filosofia del cinema All Thoughts Are Equal, la non-filosofia denuncia il metodo di ciò che viene considerato la “verità” filosofica e, allo stesso tempo, apre la strada ad altri modi di pensare, inclusa la cinematografia e la possibilità di considerare pensiero altre modalità dell’agire artistico4

Ci rivolgeremo quindi nuovamente alle nozioni di colore e di realtà, all’interno del cinema e della tecnologia delle immagini mediali, passando dalla sorveglianza all’arte fotografica, osservando come esse, infine, non si posizionino su due piani diversi – di Verità da una parte e di Finzione dall’altra. Insieme alla non-filosofia e al concetto laurelliano di photo-fiction, prenderemo in considerazione il modo in cui la “verità” è stata falsamente posta in relazione al colore rispetto al reale, sia nelle immagini storiche che in quelle dei media contemporanei; si sosterrà inoltre che la photo-fiction possa offrire un apparato teorico per ripensare la pratica del colore fotografico. Il primo passo sarà rintracciare le connessioni tra colore, realismo e morte – in quanto legate al realismo sociale – nei film e nella teoria cinematografica, per poi esaminare  come la non-filosofia di Laruelle possa offrire un modo per avvicinarsi a una cromo-politica delle pratiche di  colorizzazione contemporanee: le immagini termiche.

Il primo cinema: falso colore, realismo e verità

Così come in filosofia, il colore e il realismo sono strettamente connessi ad alcune questioni che riguardano la metafisica di ciò che è reale. Il “vero colore”, sin dagli albori della teoria del cinema, si accompagna a stretto giro di vite ad alcune questioni sulla natura del mondo fisico e sull’esperienza di ciò che è soggettivo. Gli scritti di Balasz sulle prime pellicole a colori, dal 1920 in poi, illustrano le due fazioni del dibattito perpetuo sulla presenza del colore e sul torbido polverone metafisico che essa solleva. Parlando della mescolanza additiva di Emil Leyde, Balasz afferma: 

Leyde ha inventato la cinematografia a colori ancor prima che il problema della normale fotografia a colori venisse risolto. […] I tre colori primari vengono fotografati separatamente ed estrapolati dall’immagine con i colori mischiati, così come ce la presenta la natura, per produrre un’immagine rossa, una gialla e una blu.5 

In questa sua descrizione le immagini dei tre colori, singolarmente filtrate, appartengono alla stessa scena; sono estrapolate, e dunque separate, dalla vera immagine della natura, nella quale i colori sono mischiati – un orientamento filosofico, questo, che vede la natura disporre di una vera e propria totalità colorata. È la pellicola che non dispone dell’abilità di catturare i veri colori della natura. D’altra parte, poche frasi dopo, Balasz continua a spiegare che è l’occhio dello spettatore a produrre il realismo dell’immagine a colori della scena naturale e che non è necessario che la pellicola immortali tutti i colori della natura, dacché sarà l’occhio in sua vece a riprodurli. Balasz offre un esempio del modo in cui la film theory ripropone alcune questioni filosofiche: se il colore sia o meno una parte del “vero scenario” della natura, o se si trovi all’interno dell’occhio umano; se si possa parlare della sussistenza di una realtà esterna al cervello o di una costruita nella mente.

Il dibattito su quale tipo pellicola – se quella in bianco nero o quella a colori – sia in grado di rivelare la verità della natura si estende anche ai discorsi sulla vera natura di ciò che la pellicola immortala: la realtà sociale, la vita e la morte. Per André Bazin, la pellicola a colori serviva a creare una forma definitiva di realismo, un “cinema totale” che mimasse totalmente il “mondo reale”; sosteneva che fosse assurdo pensare che il cinema muto rappresentasse “uno stadio di perfezione primigenia […] mandato in disgrazia dall’avvento del realismo del suono e del colore”6. Per Roland Barthes, il colore ha avuto il ruolo opposto: non totalizzante, ma falso e deleterio. Secondo Barthes, infatti, la fotografia in bianco e nero veicolava il realismo del mondo sociale, la verità insita nel lutto, mentre la fotografia a colori faceva venire meno i mezzi che lo rendevano possibile, dipingendo al suo posto una patina falsa sui morti – “il colore è un artificio, un cosmetico (come quello che si utilizza per imbellettare i cadaveri)”7. Come è noto, nell’analizzare  la fotografia di Alexander Gardner in Camera Lucida, Barthes affermò: “È morto e sta per morire”8. Nonostante le loro visioni opposte riguardo il colore e l’artificio, il colore e il mondo reale, la posizione di Bazin e Barthes sulla morte e sul realismo della pellicola è la medesima. Per Bazin 

Prima del cinema c’era solo la profanazione dei cadaveri e la dissacrazione delle tombe (…) oggigiorno possiamo invece dissacrare e mostrare a piacimento l’unico dei nostri possedimenti che è temporalmente inalienabile: la morte senza requie, l’eterno morir di nuovo della pellicola.9

Bazin, come Barthes, sosteneva che la specificità della pellicola fosse intimamente collegata al fatto di pensare ai morti: “la morte è sicuramente uno di quei rari eventi che giustificano l’esistenza del termine specificità cinematica”10. Per Barthes e Bazin, la realtà della pellicola risiede nella sua vera connessione con la morte, a prescindere dalla sua colorizzazione. 

Per Sergei Eisenstein il colore è sempre stato presente: “I toni neri grigi e bianchi della pellicola dei nostri migliori cameramen non sono mai stati considerati privi di colore, ma dotati di una propria scala cromatica”.11

Il lavoro di Richard Misek sulla storia del cinema gli fa eco:

La prima cinematografia considerava anche la luce, assieme a tutti i colori: nell’era del bianco e nero i registi e i direttori della fotografia mischiavano liberamente luci di colore diverso, sapendo che sarebbero tutte apparse sullo schermo come gradazioni di grigio.12

Dal punto di vista del direttore della fotografia, il colore occupa una posizione più radicale, poiché non si tratta della qualità di un oggetto fotografato, né di una rappresentazione nella mente di colui che osserva ma, come sostiene Eisenstein, “il potere del colore è alla base della rappresentazione”13. Eisenstein offre una posizione ancora più radicale: il colore come sintomo, ma anche come pratica che contiene al proprio interno la possibilità di agire in modo concreto. Osservando il lavoro di Van Gogh, Eisenstein vede la palette utilizzata dal pittore non come una manipolazione del colore o un artificio, ma come un segnale che ci mostra il deterioramento mentale dell’artista. Se Barthes guarda la fotografia in bianco e nero e dice “è morto”, si potrebbe dire che Eisenstein guarda i dipinti di Van Gogh ed esclama: “sta degenerando”. Il colore che ci propone è falso, ma Van Gogh non ci sta mentendo. È la sua esperienza reale e vissuta che emerge dal suo uso non convenzionale del colore, ed è il colore di un estraneo che arriva a noi, dal momento che lui non gli dà alcun significato. 

Come Katerina Kolozova scrive del concetto di Straniero in Laruelle, “la verità filosofica ha sempre aspirato a ricreare il reale attraverso il ‘significato’, cercando di rendere permanente il proprio modo di ‘essere reale’ e ‘legittimandolo’ come il Reale (attraverso la verità)”. Un sé che non prova ad attribuire significato nel senso filosofico della Verità è ciò che Laruelle chiama uno Straniero, una teorizzazione del sé che “supera la cesura dualistica creata dal binomio del ‘Reale’ e del ‘Soggetto’”14. In modo simile a come Laruelle collega la nozione di Straniero al superamento del dualismo tra il reale e il soggetto, Eisenstein, nei suoi ultimi scritti, parla dell’uso artistico del colore come di una “cromaturgia”, riferendosi a essa come a una “non-dualità tra il sé dell’artista e il colore”. Spiega, inoltre, che il primo passo è costituito dalla “catacresi”, ovvero un uso volutamente improprio del colore: così come un uso improprio dal punto di vista semantico, o un malapropismo attuato volutamente, il colore può diventare un vero e proprio strumento d’intervento. La cromaturgia contiene inoltre sempre l’artista al proprio interno – o deriva dalla sua esperienza, come nel caso di Van Gogh.15 

Eisenstein proseguirà sostenendo che di Van Gogh “è un errore prendere il contorno incerto di ciò che rappresenta come un disegno nel senso in cui noi intendiamo la parola”, e che 

all’interno di un’operazione magica è sufficiente riprodurre un sintomo, un tratto distintivo, per evocare un intero oggetto. Se diciamo che un colorito roseo è segno di benessere, allora è sufficiente dipingere qualcuno con il colore rosa per riportarlo alla salute.16

Allo stesso modo di Barthes, Eisenstein descrive il colore come qualcosa che può essere apposto a un corpo; non solo a un cadavere, ma anche a una persona malata. In questo caso però la pratica non è vista come prettamente negativa, come avviene in Barthes. Quando il colore viene applicato di proposito, esso stesso può rappresentare un modo di intervento. In alcuni casi, come in quello rappresentato sopra, può persino agire come una forza medica. Le applicazioni cromatiche, per Eisenstein, sono la base della rappresentazione, e dunque una forma di vero potere. Inquadrando la cromaturgia come l’atto di implementare l’uso creativo del colore in quanto regista, possiamo anche servirci di questa nozione per guardare alla storia del cinema in un altro modo: come a una cromo-politica delle pratiche di colorizzazione e alle loro conseguenze sociopolitiche – o quando si pretende che la pellicola a colori sia la verità, come se si trattasse del mondo reale. 

Il falso colore come cromo-politica, la photo-fiction come intervento

Le politiche delle pratiche di colorizzazione della pellicola associate al realismo e alla verosimiglianza rappresentano da tempo un problema nella storia del cinema, oltre che nei cultural e critical race studies. La falsa colorizzazione della pellicola ha una chiara correlazione con la storia della violenza coloniale, anti blackness, e alla rappresentazione falsata che si è fatta delle persone nere sin dall’inizio del cinema. Come Valerie Smith fa notare nella sua introduzione a Representing Blackness, il film Birth of a Nation di D.W. Griffith, considerato da molti come il punto di avvio del cinema americano, 

ha stabilito un codice della pratica narrativa all’interno del cinema, e ha favorito la circolazione di un’ampia gamma di stereotipi sulle persone nere tra un pubblico numeroso quanto mai prima di allora. […] Oltre a ciò, Birth of a Nation non era solo costruito in una maniera tale da presentarsi come testimonianza affidabile di  quali fossero i rapporti tra le razze nella cultura degli Stati Uniti del XIX secolo, ma ebbe anche un impatto diretto sulle interazioni razziali contemporanee alla sua uscita […] e dunque ebbe l’effetto di aumentare la tolleranza della violenza razziale, specialmente quella operata da parte del Klan.17

Come evidenzia Smith, rappresenterebbe un atto di negligenza parlare delle pratiche di falsa colorizzazione nella storia del cinema senza soffermarsi sulla costruzione dei codici razziali come “veri” e alla riproduzione reale della violenza razziale che ne deriva – una forma di realismo sociale che non viene solo descritta nel cinema, ma che ha un effetto sulle stesse pratiche cinematografiche. Ciò a cui ci riferiamo sono sia  le pratiche di colorizzazione volte a restituire una falsa bianchezza della pelle, sia quelle dedicate a un falso colore nero, e alla connessione di queste con la pratica di falsa colorizzazione della pellicola cinematografica, oltreché al suo utilizzo. 

Richard Misek, che nel suo lavoro ripercorre la storia della pellicola a colori, fa notare quali fossero gli obiettivi dell’azienda Technicolor. Era necessario che il colore scalzasse la posizione che il  bianco e nero occupava come indice percepito della realtà, in modo che i produttori, invece di cercare un motivo per girare un film a colori, dovessero avere bisogno di uno che gli facesse decidere di girare in bianco e nero”18. Per Misek la Technicolor mirava specificamente ad alterare “l’indice percepito di realtà” per aumentare il profitto della propria tecnologia della pellicola a colori – lo slogan pubblicitario dell’azienda recitava “Techincolor è il colore naturale”19. Mentre l’azienda si serviva di tali proclami per sollecitare le vendite, la pellicola a colori stava già venendo sviluppata in modo da far risaltare il contrasto tra la pelle nera e quella bianca – una pratica di colorazione intenzionale, o un “intervento” che favoriva la rappresentazione dei dettagli della pelle chiara di quanto accadesse con la pelle bruna o nera. Come sottolinea Misek, l’industria sosteneva che fosse meglio esporre la pellicola a una luce bianca, dichiarando che non vi fossero motivi tecnologici dietro all’implementazione di tale pratica, ma solo motivazioni razziali:

Nel cinema classico era pratica comune esporre la pellicola per i volti bianchi in modo che tutti i volti di pelle più scura si appiattissero in un nero sottoesposto. […] Forse anche la luce bianca serviva a rafforzare questa polarizzazione.20

Inoltre – spiega – sotto luci di colori differenti, i colori di pelle più scuri rimangono simili a se stessi, mentre il bianco cessa di essere bianco:

La luce colorata attenua le differenze di pigmento. Sotto a una luce gialla, tutte le facce appaiono almeno parzialmente gialle. […] Forse il vero orrore dell’età classica di Hollywood non era nascosto in una faccia verde, ma in un volto giallo o in un volto marrone chiaro, un volto la cui “vera” bianchezza o nerezza era nascosta dalla luce colorata.21

Dunque, costruendo la bianchezza attraverso il contrasto con la nerezza, si produceva la nozione di “vera bianchezza” non solo come effetto della tecnologia cinematografica, ma come obiettivo politico latente. Anche Lorna Roth sottolinea questa intenzione, volgendo lo sguardo alle costruzioni discorsive dell’apparato tecnologico di colorizzazione nella fotografia. Roth ripercorre la storia della “Shirley Card”, una legenda di colori destinata ai fotografi come guida per rendere correttamente il tono della pelle chiara, “nella quale la scheda che serviva come norma di riferimento mostrava una donna ‘caucasica’ […] e veniva utilizzata come base per misurare e calibrare il tono della pelle delle fotografie […] dal momento che quello era il colore della pelle riconosciuto come standard e ideale.” Roth ripercorre così la storia di come queste pratiche continuino a produrre la bianchezza come norma dominante a un livello tecnologico del colore, includendo le attuali tecnologie di rappresentazione digitale delle immagini e gli standard di visualizzazione degli apparecchi elettronici.22 I processi cromatici e la colorizzazione storica nelle pratiche del cinema e dei media non sono dunque state apolitiche o prive di intenzionalità né nel loro uso della luce bianca o colorata, né nella loro produzione dei toni bianchi come base “naturale” per gli schemi di colore fotografici. 

Man mano che Roth continua a evidenziare il modo in cui le pratiche digitali continuano a dipendere dal loro presupposto di bianchezza come standard nei media (digitali), ella sollecita un intervento sul livello della progettazione tecnologica, e dunque della pratica. L’obiettivo di Roth non è solo quello di mettere in difficoltà quel che rimane del nostro approccio postcoloniale alla rappresentazione visiva – e di erodere le ultime resistenze a cambiamenti normativi, istituzionali ed economici all’apparato sociopolitico – ma anche quello di mettere in discussione il ruolo centrale della caucasian-ness, così da promuovere una cromo-politica che possa dirsi tale. In altri termini, Roth sostiene la necessità di porre al centro del dibattito la politica del colore, in un modo che sia apparente, non latente, e “a ogni livello di discussione e di pianificazione dell’apparato politico”.23 Roth sembra avere la volontà di fare emergere una cromopolitica come processo, una cromaturgia, invece che limitarsi a criticarla, “per esplorare la storia e le attuali possibilità che sussistono alla fondazione di un senso comune, collettivo ed antirazzista, che possa guidare una riprogettazione delle nostre tecnologie del colore e dei suoi prodotti”.24 Se Eisenstein aveva intravisto le possibilità di intervenire mediante il colore – come per esempio la restituzione della salute attraverso la cromaturgia del cinema – l’autorappresentazione a colori è invece una rappresentazione dell’individualità dell’artista e del proprio colore, senza che però venga rappresentato dal colore di qualcun altro. In altri termini, possiamo rifarci testualmente a Eisenstein quando consideriamo il lavoro di Roth: c’è un potere effettivo nella “non-dualità dell’artista e del colore” all’interno delle pratiche di colorizzazione. 

Guardando al falso colore come al realismo della violenza sociale – partendo dai primi film in bianco e nero, passando per le affermazioni della Technicolor riguardo al colore naturale e agli studi di Roth sulla storia delle discriminazioni intenzionali per colore – possiamo dire che sia il falso colore che la fotografia hanno sempre avuto una linea politica. La colorizzazione della pellicola, sia “artificiale” che reale, può venire contestata ulteriormente come una pratica non solo tecnologica, ma di pensiero, facendo uso della nozione di photo-fiction laurelliana. Ciò che vogliamo intendere è l’associazione tra quanto detto da Roth sulla pianificazione e il pensiero di Eisenstein riguardo alla “non dualità dell’artista e del colore” e la filosofia di Laruelle, specialmente le nozioni di immanenza radicale e di non-fotografia. Per Laruelle, la filosofia ha avanzato pretese di autorità e di Verità dalla propria posizione come se si trovasse in un luogo separato dall’immanenza, invece di prendere atto della propria posizione nel Reale, che è semplicemente ciò che si sovrappone alla Verità. All’interno del suo lavoro sulla non-fotografia e sulla photo-fiction, François Laruelle offre una critica della fotografia che procede su  un binario analogo a quello percorso dalla sua critica alla filosofia. All’interno del suo concetto di non-fotografia, Laruelle intende descrivere l’atto fotografico dall’interno, non analizzandone il prodotto in maniera disgiunta. La non-fotografia è l’atto di essere consapevoli di se stessi in quanto fotografi, invece che l’atto critico di colui che osserva le fotografie, o che osserva il mondo attraverso una macchina fotografica. Il “pensiero fotografico” che lui sostiene è un modo diverso di fare fotografia. Benché né le arti del cinema né la filosofia lo abbiano considerato come tale, per Laruelle il fotografo “limitatamente alla sfera fisica […] conosce solamente la fisicità del proprio corpo, e dunque cerca di rimuovere ogni relazione di conoscenza di verità tra l’oggetto fotografato e la fotografia che ‘dovrebbe rappresentarlo’”25. “Potenza di visione”, e non rappresentazione, è il modo attraverso cui Laruelle rielabora la nozione di fotografia.

Il concetto laurelliano di “potenza di visione” è collegato a una posizione, a un punto di vista. L’essere umano, sostiene Laruelle, è una creatura posturale: la postura e la posizione sono due modi diversi attraverso i quali l’umano prende una decisione “filosofica”, ad esempio la decisione di affermare qualcosa come vero26. Questo concetto di visione non è relativo solo alle pratiche di visione scientifiche e tecnologiche, ma anche a tutte le rappresentazioni di pensiero filosofico come parte di un sistema che fa delle dichiarazioni di verità partendo da una posizione o da una postura. Insomma, tutta la filosofia è concepita in maniera fotografica, confondendo la posizione in cui è rivolto il proprio apparecchio fotografico e il colore della propria pellicola con una verità esterna, senza rendere conto della propria posizione o del proprio pregiudizio cromatico. Come spiega Ray Brassier, nel mondo di Laruelle c’è dunque un’eliminazione radicale della relazionalità tra esterno e interno; ogni posizione è non relazionale e include anche ciò che non è mai stato reso visibile “esternamente”. Ciò è probabilmente reso più chiaro nel suo lavoro sulla photo-fiction e sulla non-fotografia, dove sostiene che la visione tecnologica è “la ricerca della semplice trascendenza resa macroscopica”.27 Come fa notare John Ó Maoilearca, laddove i filosofi mettono in discussione la visione tecnologica nei termini dell’essenza dell’immagine, Laruelle 

Desidera stimolare una nuova esperienza della rappresentazione visiva. Con il processo fotografico inteso attraverso la sua causa immanente nell’idea di “postura” […] la postura significa “essere radicati in se stessi, essere contenuti all’interno della propria immanenza”. […] Se c’è un pensiero fotografico, è prima e soprattutto la prova dell’esistenza della parte ingenua di ciascuno.28

Così facendo, Laruelle non sta solamente muovendo una critica alle modalità di pensiero filosofico, fotografico e tecnologico, che lui assimila alle pratiche di pensiero “basate sull’orientamento”, ma sta anche proponendo una nuova pratica del pensiero fotografico che trova il proprio fondamento nell’autoposizione.29

L’essenza del colore non è colorata: è l’oscurità dell’universo. Il bianco metafisico non è altro che una discolorazione, l’unità prismatica o indifferente di tutti i colori. La bianchezza fenomenica è indifferente ai colori perché rappresenta il loro massimo grado di realtà,  quello che previene il loro definitivo annullarsi in un miscuglio di luce.30 

Nelle parole di Laruelle, al contrario di quanto sosterrebbero Kodak o Technicolor, una bianchezza concepita metafisicamente e fintamente costruita è ciò che costituisce una pratica di decolorazione. Ricolleghiamo quindi Laruelle, Roth ed Eisenstein in virtù del fatto che ciascuno di loro offre critiche e lineamenti di pratiche per il sé dell’artista e per il colore, anche se prendendo le mosse da situazioni differenti. 

Lo pseudo-colore dell’immagine termica le le cromo-politiche del contemporaneo

Nonostante si tratti ancora di una tecnologia emergente nelle arti e nel cinema, le immagini prodotte dalla telecamera termica rappresentano per noi una presenza familiare. Per molti anni la fotografia termica è stata usata nei sistemi di sorveglianza e in alcuni sistemi di tracciamento, tra cui quello ambientale. Questo tipo di immagini è probabilmente stato reso popolare per la prima volta nell’immaginario culturale comune dal film Predator (John McTiernan, 1987), dove le immagini termiche rappresentano il punto di vista dell’alieno. 

Fig. 1: Fotogramma del punto di vista della visione termica dell’alieno.

Questa tecnologia è stata resa celebre al pubblico anche grazie alle fotografie scattate attraverso il visore notturno, ampiamente utilizzate nei reportage della guerra del Golfo. A partire da allora, abbiamo visto le silhouette che rappresentano le luci dei corpi nella fotografia termica all’interno delle immagini di sorveglianza, nei crime show, e ora, negli smartphone e nelle fotocamere dei computer Apple, attraverso filtri che alterano il colore. Queste immagini possono spaziare dall’essere strane e spettrali, all’essere colorate e appariscenti, fino a diventare inquietanti e terrificanti. Ciò che ci appare come un contorno smussato e luminoso lungo una strada buia è in realtà un corpo sorvegliato e braccato: questo è ciò che si può vedere nelle immagini che raffigurano i confini nazionali, scattate dai sistemi di sorveglianza o dai circuiti delle forze dell’ordine – come esemplifica la pubblicità della società di tecnologie optoelettroniche Jinan Hope Wish, che mostra il confine della Cina (fig. 2) o l’immagine acquisita da una fotocamera termica diffusa dalla polizia di Boston, e che ha fatto poi il giro del web, che mostra l’uomo sospettato di aver messo una bomba alla maratona cittadina mentre si nascondeva dentro una barca (fig. 3). 

Fig. 2: Jinan Hope Wish Photoelectronic Technology Company, un esempio di utilizzo per la sorveglianza dei confini con la loro termocamera portatile a lunga portata.

Fig. 3: Immagine della termocamera utilizzata dalla polizia di Boston per trovare il sospetto terrorista, resa pubblica dalla Polizia di Stato del Massachusetts (2013).

Le fotocamere termiche, anziché catturare lo spettro della luce visibile, immortalano la temperatura e lo spettro delle luci infrarossi, invisibili all’occhio umano. Il calore corporeo che si trova sotto la soglia percettiva umana viene poi colorizzato con ciò che viene chiamato “pseudo-colore”. In maniera simile a quanto avveniva con le prime pellicole, la tabella che contiene i dati relativi al calore viene colorata falsamente, spesso attraverso gradazioni di bianco e nero. Tuttavia, anche dopo la pseudo-colorizzazione che aggiunge rossi, gialli e verdi, possiamo ancora definire i valori di colore del bianco e del nero come pseudo-colori applicati ai dati sul calore. Le parti più bianche dell’immagine sono spesso arbitrariamente connesse alle parti più calde della scala termometrica, e le sezioni più scure a quelle fredde. Quando le cose stanno così, gli esseri umani, così come le altre creature dalla temperatura equiparabile, appaiono di una luce bianca, mentre ciò che ha una temperatura minore viene rappresentato in maniera più scura. Lo pseudo colore di un corpo caldo non è la rappresentazione di una scena naturale conosciuta al nostro occhio. Il colore e i valori di bianco e nero non sono che un segnale inserito al posto di qualcosa che non potremo mai vedere. Gli pseudo-colori della telecamera termica si comportano in pieno accordo con la cromaturgia di Eisenstein, ma allo stesso tempo sostengono di rappresentare una verità. Non si tratta di una metafora, ma di una pretesa di sostituire la vita: una pretesa di verità. Lo “pseudo colore” e le immagini termiche, dunque, rappresentano la pratica cromo-politica per eccellenza. Questo ci dice sin da subito che i suoi toni non rappresentano i veri colori della scena ritratta, la quale ha subito delle alterazioni, ma che allo stesso tempo rappresenta la verità di quel che non possiamo vedere: un’immagine reale del calore dei corpi viventi. In questo stesso modo la fotografia termica riproduce esattamente ciò che secondo Laruelle la filosofia ha sempre fatto: mettere insieme la propria posizione nel Reale (ovvero l’inabilità di vedere il calore) con le modalità che ha deciso di adottare per affrontare tale posizione (attribuire uno pseudo-colore al calore) presentandole come verità. 

Le pratiche di colorizzazione delle immagini termiche, così come il finto colore del cinema e della fotografia, sono sempre state connesse al realismo sociale, alla sorveglianza e alla minaccia di una violenza predatoria. Non è una rappresentazione della morte, ma la presunta vera immagine della vita; una fotografia della vita rappresentata come luce bianca insieme alla minaccia immanente della predazione. Quel che è diverso nell’immagine termica è che, più che in altre forme di fotografia, essa fonde la propria visione orientante e predatoria con la propria pretesa di “verità” filosofica su cosa sia la vita e su come si colleghi a questa fittizia pratica di colorizzazione. Le immagini termiche prevedono un intero processo di colorizzazione in cui ci viene richiesto di accettare come una falsa visione, ma che tuttavia produce un’immagine vera. Questa convergenza è il risultato della specifica pratica di colorizzazione della disciplina e della sua rivendicazione di disporre di verità filosofiche sulla vita. 

In alcuni dei suoi recenti lavori, ovvero il progetto Heat Maps e il video che lo accompagna, Incoming, il fotografo irlandese Richard Mosse utilizza una videocamera termica militare per seguire e immortalare i viaggi dei rifugiati e dei migranti della Siria, dell’Iraq, dell’Afghanistan, del Senegal e della Somalia. La videocamera utilizzata è un dispositivo di sorveglianza militare classificato come arma da parte della legge internazionale, per via dell’utilizzo che ne viene fatto congiuntamente alle armi a lungo raggio, dacché essa è progettata per rilevare il calore corporeo fino ad una distanza di oltre 30 km. Le fotografie sono state stampate su tavole di grosse dimensioni, mentre il video viene proiettato su grandi schermi ricurvi [fig 4.5]. Si è detto che ciò che veniva mostrato fosse “la bianca e calda miseria della crisi dei migranti”, all’interno della quale “si viene trasportati in un mondo che è sia estraneo che familiare, […] dove gli esseri umani appaiono come figure spettrali, le facce sinistramente illuminate dalla fotocamera che rileva tracce di sudore, saliva e umidità”, e che “è necessario del tempo prima di abituarsi alla disorientante alterità di Incoming31. È stato affermato da Mosse che i soggetti del suo lavoro “sono stati resi allo stesso tempo sia più anonimi che più umani”, perché “tutto ciò che rimane loro è il dato di fatto biologico che sono nati, messo in primo piano dalla videocamera, che rappresenta il corpo umano come un fervore luminoso di processi biologici quali la respirazione, la produzione di energia, l’ipotermia e il calore”32. Da un lato, Mosse sostiene di rappresentare il “dato biologico” delle vite di alcuni individui, ma ribadendo allo stesso tempo che le sue fotografie stanno mostrando la “vita” in un’accezione generica, senza la rappresentazione di una specifica identità; una minima testimonianza delle fondamenta della vita. Se da un lato è certamente chiaro che ogni corpo che emana tepore, ogni fonte di calore, attiva la videocamera termica costituendo la prova del calore universale dell’essere umano, allo stesso tempo è chiaro che nel lavoro di Mosse non sono corpi qualsiasi a essere fotografati, ma i corpi di rifugiati e migranti dalla pelle nera e bruna. 

Fig. 4: Richard Mosse. Heat Maps (2017).
Fig. 5: Richard Mosse. Incoming (2017).

L’obiettivo evidentemente problematico di cancellare i particolari dell’identità, soprattutto attraverso la tecnologia militare, si mescola con la rivendicazione che Mosse fa della termocamera come verità filosofica e fotografica. La sensibilità termica della videocamera, ipoteticamente, potrebbe rilevare tutti gli umani e tutti i non umani che emanano calore all’interno di uno spettro comparabile a quello del calore umano. Tuttavia, non è questo l’utilizzo per cui è stata progettata. La promessa di un’immagine egualitaria non è l’intenzione progettuale della pratica cromatica della visione della termocamera. Non è una visione che, come sostiene Roth, incorpora una pratica di cromopolitica a tutti i livelli della sua progettazione. È stata invece pensata specificamente per tracciare i corpi attraverso la sua colorazione artificiale attraverso una luce invisibile – una versione militarizzata della pratica di predazione – e dunque per produrre i corpi marcati degli “altri”. L’estetica delle immagini di Mosse è quindi legata al loro design predatorio di origine militare, come Paul Virilio ha sottolineato riguardo alla maggior parte delle nostre “macchine di visione”.33

Ad ogni modo, c’è qualcosa in più nella cromo-politica delle immagini del progetto di Mosse. Non è l’utilizzo che esso fa della tecnologia militare a essere violento, ma il fatto che le immagini che ne derivano vengano poste come una verità della vita, come una luce che non potremo mai vedere. La luce invisibile sprigionata dal calore della vita umana viene svelata e tuttavia questo passo avviene simultaneamente a una presa di posizione, come se ci si trovasse tra le linee nemiche. Anche solo il titolo del film, Incoming, rivela la propria posizione, che guarda attraverso un apparecchio da un punto specifico della barricata, per tracciare solo e soltanto esseri umani di alcune specifiche nazioni. Nonostante le sue rivendicazioni, la videocamera di Mosse enfatizza una visione termica che guarda agli “altri” mentre sbandiera la propria definizione di quale sia la loro “vita”, una posizione che ci restituisce una dicotomia tra qui e altrove, tra “noi’” e “loro”. Non si parla quindi dell’umanità generica restituita dagli pseudo colori dei corpi vivi e caldi che il progetto promette. Più che un’immagine della vita in senso lato, sono immagini di una pratica di colorazione alterizzante e predatoria che viene postulata come derivante dalla verità di una luce invisibile. 

Fig. 6: Richard Mosse. Incoming (2017).

A un certo punto, durante Incoming, siamo chiamati ad assistere a un’autopsia; si vedono alcuni dottori prelevare le ossa di un bambino il cui corpo, in stato di decomposizione, si è arenato a riva dopo essere stato in mare per settimane. Anche se si potrebbe pensare che la videocamera termica enfatizzi il realismo di questa morte, in questo caso la gradazione dello pseudo-colore è stata invertita da Mosse. Se nelle altre immagini del video la luce viene usata per segnalare la vita dei rifugiati all’interno dei campi, nella scena dell’autopsia il colore viene invertito. I dottori vengono mostrati come figure scure e vive, mentre  il corpo del bambino, quasi uno scheletro, è presentato come una luce bianca nella quale sono visibili i dettagli della texture. Questo episodio contribuisce a rivelare che nel lavoro di Mosse la videocamera termica basa il suo funzionamento sulla colorazione fittizia dei suoi soggetti, così da poterli tracciare ulteriormente e dunque differenziare come esemplari – non come generici esseri umani. L’uso dello pseudocolore in questo caso è una falsa colorazione intenzionale che specifica il “rifugiato” nelle regole di colorazione della propria realtà cinematografica costruita, contrariamente alle affermazioni di Mosse sull’universalità delle immagini termiche. Infatti se tutte le vite vengono rese allo stesso modo dalla videocamera termica attraverso la rilevazione del calore corporeo, perché dobbiamo vedere i toni invertiti quando guardiamo il bambino morto, così da vederlo colorato come gli altri rifugiati e dipinto in pseudo toni di bianco grumoso? Sembra che, invece che la vita in quanto tale, Mosse stia specificamente colorando tutti i corpi dei rifugiati in modo da renderli dello stesso colore, in vita e in morte, contrassegnandoli, come sempre, con una specifica palette falsa di colore. 

Daniel Blight associa il lavoro di Mosse al “concettualismo Kodak” – quello del “razzismo accidentale” nella sedicente e non intenzionale bianchezza della pellicola dell’azienda – quando muove la seguente critica ad Incoming:

C’è poca differenza tra questo processo e il metodo dell’inversione concettuale adottato da alcuni artisti bianchi che producono lavori incentrati su persone di colore. È solo più difficile accorgersi […] che loro invertono e simultaneamente stabiliscono una sorta di distanza dal proprio lavoro, e il risultato di ciò è che non affrontano la vera necessità: l’azione antirazzista; la pedagogia antirazzista; la loro stessa pratica in forma di parola cioè un discorso, o nel loro caso un’opera, che si dichiara essere e pratica.34

Nella storia della falsa colorizzazione dell’altro è evidentemente anche una latente pratica di falsa-bianchezza. Nel lavoro di Mosse, quando inverte i colori, le immagini continuano comunque a produrre la stessa gamma cromatica, ma solo per alcuni corpi – specificamente corpi neri e marroni, con una pratica di colorizzazione che dichiara di mostrare la loro fulgida bianchezza. Si tratta di una forma di violenza sociale in linea con le pratiche di colorizzazione del cinema e della fotografia, e che afferma se stessa come una mera verità tecnologica. Per utilizzare le parole di Laruelle, possiamo definire tutto questo come una “appropriazione onto-foto-logica”, dove la “onto-foto-logia” si manifesta nella forma di un’auto-posizionamento della tecnica fotografia, intendendo l’auto-posizionamento come “una riflessione del sé tendenziosa, un’interpretazione sulla base di elementi che sono forse essi stessi interpretazioni e […] sulla base di pregiudizi onto-foto-logici occidentali che vengono rafforzati e resi feticcio nella forma delle filosofie-della-fotografia”35. Mosse propone alcune rivendicazioni filosofiche sia sulla fotografia che sulla vita quando afferma di fotografare la vera vita degli altri. Al di là della sua pratica di alterizzazione, Incoming contiene alcuni assunti di verità sul Life imaging in senso lato, dal momento che omette la propria posizionalità nello spazio quando dichiara quella verità. Come sottolinea Kolozova nella sua critica a Laruelle, la verità è il frangente ambivalente nel quale un pensiero decide di prendere il posto del reale diventando “la sua verità”36. Per Laruelle, quindi, il fotografo standard è colui che si distanzia consapevolmente dal mondo mentre lo prende a oggetto, “solo per allontanarsi dal campo dell’obiettivo, per distanziarsi dall’essenza dello scatto”37. Quello che Laruelle intende nella pratica della photo-fiction non è solo un sé incorporato nella pratica dello scatto, ma anche un sé incorporato nella macchina fotografica: “contrariamente a quel miscuglio indeciso che pensa di essere capace di risolvere tutti i propri problemi compiendo una decisione di natura meccanica posta tra soggetto e oggetto, una nuova modalità, che non è più quella della differenza ma quella dell’indivisibile unione dell’apparato fotografico e del mondo: la photo-fiction38.

Utilizzare la photo-fiction non è altro che utilizzare lo stesso pensiero che si trova alle spalle della fotocamera termica; è adottare una consapevolezza non ingenua nei confronti del calore vivo dei corpi attraverso il proprio calore. In altri termini, con la fotocamera termica possiamo tenere a mente che non stiamo vedendo quello che è veramente accessibile alla nostra percezione, e tuttavia continuare a operare attraverso la consapevolezza che il calore della vita di ciascuno, e quello che la fotocamera termica immagina, sono strettamente connessi. Così facendo, comprendere il calore delle immagini termiche ci porta veramente a confrontarci con la genericità. È questo il motivo per il quale Laruelle afferma che, più che avere un orientamento orientante, “la fotografia generica è eticamente orientata alle persone, al loro servizio per difenderle, e compie il passaggio dalla fotografia positiva, dedita al narcisismo, al mondo della fotografia generica”39

È per questo motivo che Mosse non riesce a creare una “fotografia generica” nei suoi discorsi sull’immagine termica. Non si situa mai all’interno dell’apparato, ma dietro, e dunque non è un fotografo dell’umanità generica. L’immagine termica qui porta con sé un orientamento filosofico che giova alla pratica fotografica narcisista: è già volta in un’ottica orientalista, invece di partire da un punto di vista generico. 

Fig. 7: Richard Mosse. Incoming (2017).

Come scrive K. Kolozova in The Lived Revolution: Solidarity with the Body in Pain as the New Political Universal, per Laruelle

“Dolore” o “sofferenza” sono termini che “subiscono l’effetto dell’immanenza”, ovvero funzionano in modo tale da evocare direttamente (il ricordo di) un’esperienza di dolore o di sofferenza. L’identificazione con lo stesso dolore o la stessa sofferenza dell’Altro può servire come base per una solidarietà politica, una solidarietà che sia più inclusiva della categoria discorsiva di ‘umanità’.40

L’immagine termica, se da una parte promette di mostrare il calore di una generica “umanità” attraverso il suo colore, non è generica se universale, se non implica anche la solidarietà con il dolore di tutti i corpi dotati di calore. Pensare alla fotocamera termica e alla sua pseudo-colorizzazione come generica vuol dire dimenticare il fatto che sia unidirezionale e che continui a perpetrare l’illusione di una verità auto-posizionale fondata su una modalità orientale di predazione fotografica e militaristica. La pratica di falsa colorizzazione presente nel lavoro di Mosse è dunque adatta alla tecnologia della sorveglianza militare, dal momento che volutamente traccia solo alcuni tipi di corpi, e le immagini che produce sono orientate al tracciamento, al sezionamento e all’uccisione di certi tipi di corpi. In una pratica termografica foto-finzionale, d’altra parte, le immagini termiche dei corpi caldi richiedono la padronanza del proprio corpo, del proprio colore corporeo e del dolore cui il proprio corpo è soggetto.

Dopo aver conseguito la padronanza della pratica fotografica non-filosofica, è possibile dedicarsi a una pratica fotografica del calore che sappiamo di non poter vedere, come se si trattasse di una fotografia osservata con gli occhi semichiusi. O meglio, come Laruelle fondamentalmente sostiene, la photo-fiction non è minimamente fotografia, ma è 

l’atto di scattare una foto con gli occhi chiusi, a patto di ammettere che sono chiusi, che a sua volta significa che erano stati aperti, e che, per la precisione, sono semichiusi, e che con l’atto di battere le ciglia prendiamo una smodata quantità di informazioni sul mondo, e che con questo stesso atto dominiamo i suoi aspetti più intensamente allucinatori.41

Solo coloro che padroneggiano la propria ingenuità e il posto del proprio patimento corporeo nel mondo sono preparati ad adoperare delle nuove pratiche di intervento mediante il colore, così da potere scattare fotografie generiche. Iniziare ad attuare una pratica di progettazione cromopolitica vuol dire attuare una pratica di auto-pensiero, dell’individualità dell’artista e del proprio colore, e una solidarietà con altri corpi come il proprio, intrecciati insieme nel caldo dolore bianco della vita vera.

Bibliografia.

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  20. Roth, L. ‘Looking at Shirley, the Ultimate Norm: Colour Balance, Image Technologies, and Cognitive Equity’, Canadian Journal of Communication, 34.1, 2009: 111-136.
  21. Smith, V. Representing blackness: Issues in film and video. New Brunswick: Rutgers University Press, 1997.Virilio, P. The vision machine. Bloomington: Indiana University Press, 1994.

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Yvette Granata è Assistant Professor di Digital Media presso l’Università del Michigan, nel Dipartimento di Cinema, Televisione e Media e al Digital Studies Institute. Lavora su diversi media per creare installazioni immersive, ambienti interattivi, film in VR, videoarte e sistemi tecnologici ipotetici. Scrive di teoria dei media, filosofia e cultura dei media digitali. Il suo lavoro è stato presentato, tra gli altri, all’Harvard Carpenter Center for the Arts, all’Eye Film Institute di Amsterdam, alla Kunsthalle of Media and Light Art di Detroit, al Papy Gyro Nights in Norvegia e a Hong Kong, all’Hallwalls Contemporary Arts Center e allo Squeaky Wheel Media Arts Center di Buffalo. Ha pubblicato su Ctrl-Z: New Media Philosophy, Trace Journal, NECSUS: European Journal of Media Studies, International Journal of Cultural Studies e AI & Society. Il suo lavoro di progettazione cinematografica è apparso sugli schermi del Sundance film festival, del Tribeca film festival, di Rotterdam, della Berlinale, del Rome International Film Fest, del SXSW e del CPH:PIX. Ha inoltre prodotto il documentario ibrido City World (2012), presentato in anteprima internazionale al CPH:DOX e premiato come miglior documentario al Cinema on the Edge di Los Angeles.
Si ringrazia Arianna Diazzi per la traduzione.

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  1. Comolli et al 1965, p.18.
  2. In originale è redness: si è optato per evitare la traduzione letterale di essere rosso o l’opzione rossità. Visto che il discorso verte sul carattere attributivo e non predicativo degli aggettivi, nel tentativo di offrire una relazione fra oggetto e proprietà che non sia di chiusura, il modo migliore per restituire il senso di redness – traduttore traditore – è stato quello di seguire le orme del Deleuze di Logica del Senso.
  3. Brassier 2003, p. 32.
  4. Ó Maoilearca 2015.
  5. Balasz 2016 (orig. 1923), p. 583.
  6. Bazin 1967, p. 236.
  7. Barthes 1993, p. 81.
  8. Ibid.
  9. Bazin 2003 (orig. 1949), p. 31.
  10. Ibid., p.30.
  11. Eisenstein 1959.
  12. Misek 2010, p. 123.
  13. Eisenstein 2010.
  14. Kolozova 2011, p. 63.
  15. Ibid.
  16. Eisenstein 2010, p. 104.
  17. Smith 1997, p. 1.
  18. Misek 2010, p. 35.
  19. Ibid.
  20. Ibid., p. 36.
  21. Ibid.
  22. Roth 2009, p. 112.
  23. Ibid., p. 128.
  24. Ibid., p. 127.
  25. Laruelle 2011, pp. 17, 18.
  26. Ó Maoilearca 2015, p. 156.
  27. Laruelle 2012, p. 48.
  28. Ó Maoilearca 2015, p. 157.
  29. Cf. Burk 2014, p. 70.
  30. Laruelle 1988, p. 405.
  31. O’Hagan 2017a.
  32. O’Hagan 2017b.
  33. Virilio 1994.
  34. Blight 2017.
  35. Laruelle 2011, p. 5.
  36. Kolozova 2011, p. 63.
  37. Laruelle 2011, p. 8.
  38. Laruelle 2012, p. 51.
  39. Ibid., p. 53.
  40. Kolozova 2010, p. 143.
  41. Laruelle 2012, p. 34.
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