Sudiciume e non-Tecnologia

by / 9 Marzo 2022

Possono lo scarto e l’eccesso prodotti dalla materia organica, così come la scoria e il residuo frutto della produzione tecnologica, rappresentare una categoria ontologica attraverso la quale elaborare una critica della logica rappresentativa propria della tecnologia? Può il disgusto essere la manifestazione di un pregiudizio metafisico? Nel mezzo di quello spazio oscuro che divide il corpo organico da quello inorganico, Germán Sierra – neuroscienziato presso l’Università di Santiago de Compostela, scrittore, filosofo – pone questi interrogativi al centro della questione della tecnologia.

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Sono sudicio [Je suis sale] – scrive Lautréamont – sono pieno di pidocchi. I porci, quando mi guardano, vomitano. Le croste e le escare della lebbra hanno squamato la mia pelle, coperta di un pus giallastro. 1 A differenza dello sporco (dirt), facilmente lavabile dalla superficie della nostra pelle, il sudiciume (filth), come un unguento maledetto o un agente ricombinante della transgenesi, è suscettibile di essere assorbito, assimilato dal corpo mediante il contatto. Temiamo che il corpo sudicio non possa essere poi pulito o purificato perché il lerciume potrebbe liberamente oltrepassare ogni schermo protettivo, ogni interfaccia di sicurezza, e ogni membrana esterna (come nelle infezioni virali, in cui la nostra maggiore preoccupazione è relativa alle strategie multiple messe in atto dai virus al fine di oltrepassare le pareti e le membrane biologiche) – e quindi deve essere ossessivamente evitato, impedito, tenuto lontano . . . o, altrimenti, incondizionatamente abbracciato come uno stadio iniziale, notte-oscura-del-corpo, che prepara la carne a ulteriori trasformazioni.

 Il sudiciume, dunque, lo si crede insidioso, nel suo infiltrare la carne per diventare carne, per rinnovare il sé attraverso una rivoluzionaria putrefazione nigredo. L’aderenza ripugnante del sudicio ci ricorda la stessa adesività del corpo – la sua condizione appiccicosa, protoplasmatica, carnosa, espellibile e piacevole -, evidenziando che i corpi non sono solo pelle contorta – un’esteriorità ripiegata su se stessa, come sottolineato da Jean-Luc Nancy 2 -, ma una più problematica e profonda interiorità umida che lotta contro i propri limiti per riversarsi all’esterno. Potremmo fantasticare su corpi liberi dalla sporcizia, come scrive Michael Marder, aggrappandoci a una convinzione non articolata che noi, anche, possiamo diventare spiriti puri e purificarci da tutti gli orpelli materiali, cosicchè spolverare e pulire forniscano vie di fuga dal rendez-vous con noi stessi.3 La pulizia, dice Marder, ci impedisce di affrontare il nostro desiderio (D 199), ma il sudiciume è sporcizia hardcore: la sua presenza non solo ci costringe ad affrontare i nostri desideri altrimenti non riconosciuti, ma ci mette anche faccia a faccia con gli orrori ripugnanti della morte, della corruzione e della decadenza – E anche tu arriverai a questa immonda vergogna / Quest’ultima infezione [Et pourtant vous serez semblable à cette ordure / À cette horrible infection], scrive Baudelaire.4

Lo sporco appare spesso come una cosa solida (o solidificabile). Si accumula, sopra di noi e intorno a noi, in strati in qualche modo quantificabili, come un effetto collaterale della creatività; ci macchiamo le mani lavorando, usando gli strumenti – ci sporchiamo con il nostro uso mirato della tecnologia. Il sudiciume, invece, rappresenta un flusso radicale ricoperto d’umido, florido di “increatività”: se viene dalla tecnologia, essa ha iniziato a comportarsi “non-tecnicamente”. Nulla di pianificato o calcolato accade al contatto viscoso con il sudiciume, nulla se non la minaccia di una trasformazione imprevedibile e continua. Esso è un residuo della morte, ma non come solidificazione definitiva in un fossile, bensì come l’inizio di cicli quasi-ridondanti di caotiche reazioni chimiche.5

Illustrazione per Les Chants de Maldoror di Lautréamont (1868-1869). Marco Saccaperni, 2011.

La vita si decompone in sudiciume – scrive Nick Land – mentre esplora la vicaria morte dell’universo. In nessun caso l’eterogeneo appartiene ad alcuna dimensione, poiché è “esattamente” l’irruzione della decomponibilità. La materia eterogenea (di base) – “sangue, sperma, urina e vomito…” – si caratterizza negativamente in relazione ad ogni possibile strato di organizzazione elementare, ed è per questo che resiste al discorso sulle cose. Vomito, escrementi e carne in decomposizione non offrono una solidità non-problematica o una forma comprensibile, ma piuttosto una divisibilità quasi-fluida, una consistenza imprecisa, modelli di coesione multipli, insufficienti ed evanescenti. Il tutto si mescola a parole lordate di santità. “Scrivere è indagare il caso”, ma l’eccesso esplosivo che irrompe nella schiuma nera della poesia non è semplicemente un rischio, perché il rischio implica la possibilità di un esito benevolo. È una “rovina senza limiti”, “la sottomissione dell’uomo al [vuoto]”. L’eccesso è veleno. (TA 204)

Dal punto di vista della psicologia evolutiva, il sudicio potrebbe rappresentare ciò che causa disgusto perché latore di malattia. Il disgusto sarebbe una reazione corporea appresa rivolta a cose che si suppone siano particolarmente pericolose, perché possono infiltrarsi nel corpo e de-comporlo. Non è così semplice. Il sudiciume non si limita a minacciare il corpo con la prospettiva della mutazione, ma avvia un giro infinito di trasformazioni: mangia l’identità e la struttura, trasformando il corpo in un carburante amorfo (la materia nera del processo alchemico nigredo) di costante cambiamento casuale. Non sorprende quindi che il sudiciume manchi di una forma propria – anzi, è spesso inteso come pura assenza di forma percepibile -, resistendo di conseguenza alla mediazione/tecnificazione umana. Nella sua lettura del Maldoror di Lautréamont, Eugene Thacker insiste molte volte su una certa relazione dinamica fra amorfosi e metamorfosi:

Nell’amorfosi la forma è spinta al suo limite, diventando o l’assenza di ogni forma (l’evacuazione di ogni forma) o la forma assoluta (il divoramento di ogni forma possibile). In Maldoror, queste istanze di assenza di forma possono esistere all’interno di un singolo corpo (come nella morfogenesi del personaggio di Maldoror come un branco di cani e poi come un miasma), o può esistere pervasivamente in più corpi (ad esempio, stormi di uccelli, un’orda di ratti, uno sciame di calamari volanti). L’amorfosi funziona lungo l’asse umanità/divinità; il suo operatore è quello della dissipazione e della dissoluzione.6

Non è impensabile che le prime tecnologie umane – la tecnificazione di risorse naturali come il fuoco e il ghiaccio in mediatori tra l’uomo e la natura 7 – fossero direttamente votate a impedire che le cose (per esempio i corpi umani e il cibo) si disperdessero in una lordura amorfa. Il sudicio, potremmo dire, maledice la carne agendo come un oggetto non-tecnico9 che richiede tecnologie periferiche di prevenzione e, a differenza della spazzatura o dei rifiuti, non può mai essere reinserito nei sistemi di riciclaggio. In effetti, le conseguenze non-tecniche della tecnologia umana potrebbero essere descritte come sudicie.

Se, per i vittoriani, la rappresentazione archetipica della sporcizia era il miasma 10– un agente infettivo distribuito, vaporoso, che si pensava facesse marcire i componenti elementari del corpo umano – per noi tale posto l’ha preso il materiale radioattivo – residui “disordinati” che, invece di stare lì a minacciare gli umani con una tossicità passiva, compiono continuamente la loro lenta disintegrazione, trasformandosi nel mutageno per eccellenza che “non va mai via”. Chernobyl e Fukushima non sono solo diventate metafore materiali dei luoghi più sporchi della Terra, ma ci si aspetta che rimangano tali per secoli, non importa quanti sforzi si possano fare per purificarli. Il lavaggio ostinato, infatti, si traduce spesso in un paradossale rimbalzo dei residui: La Grande Pulizia, iniziata nel XIX secolo, come nota Marder, non ha fatto nulla per fermare l’assalto della polvere. Mentre la polvere e lo sporco sono banditi, . . . i rifiuti e la spazzatura si moltiplicano (D 801).

Originariamente inteso come il risultato “non voluto” (innaturale, contra natura) della natura, il sudiciume è diventato il risultato casuale (non tecnificabile) della tecnologia, includendo non solo pericolosi residui industriali e catastrofi ecologiche, ma anche la conseguenza dello squilibrio sociale (gli “schifosi ricchi” come sottoprodotto delle tecnologie finanziarie) e comunicazionale (“il sudiciume delle celebrità” come sottoprodotto delle tecnologie dei media). In quanto non-tecnologia, quindi, il sudicio potrebbe essere inteso come un eccesso di vita che pone una minaccia alla vita stessa.11 Esso si comporta come il “rumore” della carne12, l’oggetto informe e non tecnologico che apre la strada a una non-fenomenologia minacciando il corpo con il pericolo di diventare la cosa: Come questo corpo si ritira dall’esperienza, così produce un eccesso nel mondo, che ora deve essere avvicinato da sotto la materia, o meglio, da oltre la materia. Privo di soggettività, privo di esperienza, interviene il silenzio. In questa zona, la differenza nella carne fa nascere la cosa. La cosa non ha identità, se non quella di un processo in continua mutazione, arido di ogni specificità e capace invece di adattarsi insidiosamente all’ambiente circostante. Di essa si può dire solo che c’è una cosa.13

Dettaglio da Il Trionfo della morte di Bruegel il Vecchio (1562, circa)

Del sudiciume, possiamo solo dire che c’è una cosa, e, come spiega Daniel Rourke a proposito dell’omonimo film di John Carpenter, La Cosa compie un’ontogenesi (qualcosa viene-ad-essere) piuttosto che un’ontologia (qualcosa è già).14 Appartiene al regno del divenire, cambia “la mente” e “il corpo” trasformandoli in qualcosa di sudicio: una sorta di vegetazione tenace, piena di parassiti sporchi; questa vegetazione non ha più nulla in comune con le altre piante, né è carne (Lautréamont, M 1772). Una volta che la carne è stata invasa dal sudiciume, diventa essa stessa sudicia, tornando al dominio dello sciame primordiale. Solo una memoria “pulita” sarebbe in grado di mantenere l’immagine ideale e incontaminata del “corpo”: Parla dunque, mia Bella, a questa terribile putrescenza / Al verme che bacerà la tua orgogliosa proprietà / Che ho mantenuto inviolate la forma e l’essenza divine / Dei miei amori incancreniti [Alors, ô ma beauty! dites à la vermine / Qui vous mangera de baisers, / Que j’ai gardé la forme et l’essence divine / De mes amours décomposés!] (Baudelaire, FE 39, 265). L’amore di Baudelaire potrebbe sopravvivere alla morte se riuscisse a dissociare i ricordi del cadavere marcio divorato dai vermi.

La morte classica separa la carne sudicia dal corpo polveroso – tu sei polvere, e alla polvere ritornerai – permettendo al fantasma di essere amato, come leggiamo in Baudelaire e Poe, se riesce a liberarsi dalla morsa vischiosa della carne che corrompe, impedendo il ritorno del reale riducendosi a pura forma, pura tecnologia. Solo allora rinuncia alla propria estetica e si sottomette alla logica dell’immaginazione dell’altro.15Il cadavere sporco, potremmo dire, rappresenta la resistenza della realtà a diventare tecnicizzata: un rifiuto della posizione che predomina nella nostra tecno-metafisica contemporanea, piena di fantasie di divenire virtuale, consegnando la coscienza individuale al cyberspazio, o caricando i dati dei nostri ricordi su un disco più durevole della massa grigia dentro i nostri crani (Marder, D 199).

Il sudiciume non può essere lavato o esorcizzato perché è la metafora più radicale del radicalmente altro: il cambiamento stesso – l’impermanenza immanente che non possiamo controllare e che non accade né per il bene né per il male. Lo sporco, come il peccato, può essere ignorato, perdonato, estratto, separato, esorcizzato, lavato fuori dal corpo. I santi e i lavoratori si sporcano, perché lo sporco è il ricordo del contatto della terra con il corpo (idealmente pulito), quindi può essere o purificato tecnologicamente (facendolo “passare” attraverso sistemi fisici o metafisici), o indossato orgogliosamente come una cicatrice della memoria, come un marchio permanente sulla pelle di una vita avventurosa. La morte si trasforma tecnicamente in polvere e cenere perché simboleggia una fine chiara, e questa fine è anche l’inizio di un “sé” definitivo. I cadaveri in decomposizione, invece, sono incompiuti e infestati da entità brulicanti e batteri invisibili che espellono gas pericolosi e fetidi. Il cadavere in decomposizione ci ricorda che non c’è una fine “pulita”, solo una trasformazione più disordinata:

La morte, nel disordine che, a causa della sua irruzione, succede all’idea di un individuo considerato come parte della coerenza delle cose, è l’aspetto che tutto il dato naturale assume nella misura in cui non può essere assimilato, non può essere incorporato nel mondo coerente e chiaro. Davanti ai nostri occhi, la morte incarnata da un morto partecipa di tutto un orrore vischioso; è della stessa natura dei rospi, del sudiciume, dei ragni più terribili. È la natura, non solo quella che non siamo stati in grado di conquistare, ma anche quella che non siamo nemmeno riusciti ad affrontare, e contro la quale non abbiamo nemmeno la possibilità di lottare. Qualcosa di orribile e incruento si attacca al corpo che si decompone, in assenza di colui che ci ha parlato e il cui silenzio ci rivolta.16


Come qualcosa di escreto dal corpo (tecnico), il sudiciume è, infatti, il corpo che espelle se stesso: la performance non tecnica del corpo. Questo è il motivo per cui la “pornografia” mainstream non provoca più repulsione: ogni pratica sessuale che è stata decontestualizzata, messa in scena e trasformata in un allenamento performativo, non ha il potere di mettere in discussione le funzioni tecniche del corpo in alcun modo, e nemmeno di rappresentare qualsiasi funzione che possa essere intesa come “disgustosa”. 17 Regolando ogni tipo di comportamento (umano, non umano e persino anti-umano) nella tecnologia, i corpi sono stati ricaricati della capacità di passare funzionalmente attraverso la maggior parte delle esperienze senza un’effettiva trasformazione, evitando o marginalizzando ciò che sarebbe percepito come una vera esperienza estetica.

In questo senso, la cultura mainstream contemporanea si è evoluta evitando lo schifo – specialmente la gioiosa esfiltrazione – esiliandola nell’arte “sperimentale” e nella narrativa “d’avanguardia”.18 A causa di ciò, uno dei miti più pervasivi dell’uomo moderno è lo scenario da incubo dell’etichettatura – forse da qualche futura intelligenza meccanica – come non-tecnologia senza valore. 

Eppure, socialmente, il sudiciume è stato affrontato in modi strettamente legati al discorso mitologico della “dipendenza”. Secondo questo discorso, una persona che è diventata “dipendente” rimane tale per tutta la vita. E poiché  “dipendenza” – intesa come una qualità innata o acquisita – significa consumare compulsivamente una cosa specifica invece della varietà di prodotti prescritti dal mercato, è qualcosa che non può essere invertito. Ai “tossicodipendenti” rimane quindi una sola possibilità: quella di sostituire un comportamento ripetitivo e rituale con un altro comportamento ripetitivo e rituale (socialmente accettato), ovvero legittimato durante il processo meccanico di riabilitazione. Poiché la “dipendenza”, come il sudiciume, si attacca al corpo e potrebbe essere contagioso, lo scopo di questi comportamenti rituali di riabilitazione, socialmente organizzati, è quello di annullare le capacità trasformative del corpo, come a evitare la diffusione sociale di quella lordura.19

Il filosofo francese François Laruelle ha utilizzato il termine “non-filosofia “20 per designare uno stile di pensiero volto ad analizzare quegli aspetti della filosofia che essa stessa non può esaminare senza diventare qualcos’altro (Thacker, TLN 1390). Seguendo Laruelle e Thacker, ho usato qui il termine “non-tecnologia” per designare un insieme di processi che compiono quegli atti che la tecnologia stessa non può compiere senza diventare qualcos’altro, cioè senza divenire sudicia. Come ha dimostrato Thacker, in Maldoror (e nella maggior parte della narrativa moderna) il sudiciume è indistinguibile dall’orrore di cadere nell’amorfosi.21 Ponendo una sfida al cogito – al principio della ragione sufficiente, “un principio morale e teologico che il mondo è ben formato, e che la forma del mondo è necessaria al mondo” (Thacker, TLN 1422) – Maldoror apre la porta alle letterature sperimentali del XX e XXI secolo, che, riconoscendo il ruolo di Lautréamont come pioniere della negazione dei corpi nel testo e l’auto-negazione del corpo del testo stesso, continuano l’esplorazione delle anti-forme letterarie. Eppure, alla fine, Maldoror, come libro, rimane una sfida non a causa delle sue negazioni anti-umane, ma perché sfugge ai limiti di una presunta  tecno-narratività “realistica”. Nega ogni forma, compresa quella letteraria. Non rappresenta semplicemente il sudiciume; è sudicio.

Il sudiciume, tuttavia, non è necessariamente associato all’orrore metafisico, né è una semplice metafora dei modi apofatici del corpo.22 Sebbene la cultura popolare contemporanea abbia la tendenza a rappresentare i corpi umani come entità originariamente pulite,23operativamente chiuse,24 limitando così le relazioni tra i corpi allo scambio di diversi tipi di “informazioni”, rimane il fatto che il sudiciume è ciò che il corpo espelle – dà via senza permesso – al di fuori di tutte le regole sociali di scambio, seguendo una logica “energetica” piuttosto che “semiotica”.25 Il riconoscimento dell’altro come “altro reale” richiede il riconoscimento della sua natura sporca, diversa dall’immagine ideale che, come nell’esempio di Baudelaire, potrebbe rimanere inalterata dal passare del tempo e dalla corruzione della carne. Questa accettazione del sudiciume significa la volontà di accettare il rischio, di riconoscere che la carne dell’altro potrebbe diventare qualcosa di molto diverso da quello che ci aspettavamo che fosse, e che la sua alterità risiede nella nostra consapevolezza di quella sporca non-identità. L’identità, come attualmente intesa, deriva principalmente da un recinto operativo tecnicamente descritto del sé, ma la non-tecnologia, come uno specchio distorto, risponde all’incessante interrogazione – come funziona? – con una domanda de-formata e impossibile – come insudicia?

Mentre molte teorie attuali del “postumano” sono basate sul modello cyborg, in cui ci si aspetta che il corpo umano si fonda con la tecnologia digitale, questo modello di coalescenza uomo/macchina spesso assume una serie di “scopi tecnici comuni” condivisi dal corpo umano e dalle macchine (immaginate dall’uomo).26 Il problema con l’ipotesi del modello cyborg, almeno per scopi teorici, è che esclude tutti gli aspetti non tecnici sia dei corpi umani che degli oggetti digitali, cioè tutti quegli aspetti d’eccesso che sono spesso trascurati per facilitare una corretta, simbolica, comunicazione uomo-macchina. Anche gli scrittori che speculano sulla possibilità di una completa incomunicabilità tra gli umani e le future macchine intelligenti sembrano considerare che ogni sottoprodotto della tecnologia sia necessariamente tecnologico. Ma, come ho cercato di mostrare, questa esclusione degli aspetti non tecnici mina qualsiasi speculazione riguardante la transizione verso una condizione post-umana. Forse lo studio teorico del “sudiciume” – sia come “invasore della carne”/trasformatore non tecnico, sia come “la cosa” che si riversa involontariamente fuori dal corpo – aiuterà a provocare approcci complementari e non tecnologici al postumano.

Germàn Sierra è un neuroscienziato, autore di contemporary fiction e membro del collettivo Afterpop. La sua produzione narrativa è dedicata principalmente alla metamediatica e al ruolo che scienza e tecnologia assuomono all’interno dei discorsi culturali nelle società post-postmoderne e post-umane.

  1. Comte de Lautréamont, Maldoror and Poems, trans. Paul Knight (Londra: Penguin, 1988), 1778. Kindle. [I Canti di Maldoror, trad. it. N. M. Buonarroti, Feltrinelli, Milano, 2021] Di seguito citato nel testo come M.
  2. Vedi Jean-Luc Nancy, Corpus, trans. Richard A. Rand (New York: Fordham UP, 2008), 15, [Corpus, trad. A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2004]. Lì Nancy scrive:
    “Il corpo . . . non è né pieno né vuoto, poiché non ha un esterno né un interno. Eppure è una pelle, variamente piegata, ripiegata, dispiegata, moltiplicata, invaginata, esogastrulata, orificata, evasiva, invasa, allungata, rilassata, angosciata, legata, slegata” (15).
  3. Michael Marder, Dust (Londra: Bloomsbury, 2016), 571. Kindle. Di seguito citato nel testo come D.
  4. Charles Baudelaire, The Flowers of Evil (edizione bilingue), trans. Cyril Scott (New York: New Directions, 1989), 38 (inglese), 264 (francese), [I fiori del male con testo a fronte, trad. A. Prete, Feltrinelli Universale Economica, Milano, 2014]. Di seguito citato nel testo come FE.
  5. Vedi Nick Land, The Thirst for Annihilation: Georges Bataille and Virulent Nihilism (London: Routledge, 1992), 89. Di seguito citato nel testo come TA. Sulla figura disordinata del cadavere in decomposizione, Land scrive:
    «Un cadavere ha una distribuzione eterogenea preminente e storicamente fatale: quella tra la sua struttura scheletrica e i suoi tessuti molli. Questa è intesa come una differenza tra ciò che è perdurante, secco, pulito, formale, e ciò che è volatile, bagnato, sporco e informe. Sulla base di questo espediente, la civiltà occidentale non è stata solo tanatologica, ma osseologica, qualcosa che va oltre il fascino dello scheletro, e in particolare del cranio, che è distribuito in modo estremamente ampio nelle culture. L’osseologia, nel suo senso profondo, è l’uso della differenza tra le parti dure e morbide del corpo come operatore logico nel discorso sulla materia e la morte. Per esempio, la differenziazione tra forma eterna e sostanza deperibile, purezza celeste e sporcizia terrestre, architettura divina e flusso di base. Lo scheletro è così concepito come un’essenza armonica invisibile, un’infrastruttura sotto le maree inquietanti della patologia molle. È il prototipo della forma intelligibile, in contrasto con la massa decadente del corpo sensibile». (89; corsivo aggiunto).
  6. Eugene Thacker, Tentacles Longer Than Night: Horror of Philosophy, Vol. 3 (Winchester, UK: Zero Books, 2015), 1342. Kindle [traduzione italiana non presente]. Di seguito citato nel testo come TLN.
  7. Gilbert Simondon, On the Mode of Existence of Technical Objects [1958], trans. Ninian Mellamphy (Ontario: University of Western Ontario, 1980), [Del modo di esistenza degli oggetti tecnici, trad. A. S. Caridi, Orthotes, Milano, 2021].
  8. Una discussione dettagliata su come “tecnologia” e “tecnica” sono definite nelle diverse discipline – o scuole filosofiche – va oltre lo scopo di questo saggio. Qui, uso entrambi i termini in un contesto trasversale, “letterario”, soprattutto in riferimento alle funzioni di mediazione della tecnologia, senza ridurle a ciò che è comunemente designato come “tecnologie dei media”. In senso lato, “tecnologia” e “oggetti tecnici” si riferiscono qui a due fenomeni: [1] i modi in cui i corpi – in particolare i corpi umani – interagiscono con la tecnica, e [2] le istruzioni e le macchine progettate per espandere l’azione umana. Così, la proposta di una “comprensione non tecnologica del sudiciume” non implica l’esistenza di un’esteriorità ontologica della tecnologia o la possibilità di uno stato pre-tecnologico della materia, ma l’esistenza di una qualche resistenza intrinseca nella tecnologia stessa rispetto l’essere “tecnicizzata”. Come ha notato Alexander Galloway, l’uso da parte di Francois Laruelle del prefisso non- nella “non-filosofia” (come i “non-luoghi” di Marc Augé o la “non-fenomenologia” di Dylan Trigg) non significa una sostituzione o negazione dialettica del concetto che lo segue. Parafrasando Galloway, potremmo dire che il sudiciume raggiunge la sua (in)distinzione non opponendosi alla tecnologia, ma “smilitarizzandola”.8Cfr. Alexander Galloway, Laruelle: Against the Digital (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2014), 190.
  9. Come nota Yiannis Gabriel:
    «Il miasma, come la tossicità, coincide con una fantasia inconscia di essere inquinati da sostanze tossiche. Ma il miasma va oltre la semplice tossicità in tre modi significativi: primo, è altamente contagioso; secondo, il miasma, a differenza della tossicità, non può essere metabolizzato o neutralizzato attraverso il dispiegamento di adeguati meccanismi di difesa; terzo, genera un circolo vizioso auto-rinforzante, dove i tentativi di purificazione peggiorano la condizione. Così, il miasma porta ad uno stato di decadenza morale e spirituale, una corruzione di tutti i valori e delle relazioni umane di fiducia, amore e comunità – le persone sospettano che i loro vicini siano la causa, la caccia al capro espiatorio e alle streghe si diffondono. La tossicità può quindi essere vista come una normale, anche se spiacevole, conseguenza della vita organizzativa in generale, mentre il miasma dovrebbe essere riservato a casi che comportano sintomi molto più estremi [ . . . ] Il concetto di miasma . . . rende facilmente conto dell’assenza di resistenza. Le violazioni e le minacce esterne possono essere contrastate o combattute, ma lo stesso non si può dire per le violazioni e la decadenza interne. In effetti, il miasma sembra infettare la resistenza stessa, compromettendola, inquinandola e sovvertendola».
    Vedi Yiannis Gabriel, “Organizations in a State of Darkness: Towards a Theory of Organizational Miasma,” Organization Studies 33.9 (2012): 1137-1152.
  10. Così, la vita degli “schifosamente ricchi” rappresenta la più grande minaccia per un’economia teleologicamente guidata non a causa del loro accumulo di ricchezza, ma per la loro capacità di espellere grandi quantità di “ricchezza” sul mercato, disturbando il suo funzionamento meccanico. Allo stesso modo, sulla “vita” in Maldoror, Thacker afferma:
    «Maldoror è un tipo di poesia tragica perché afferma che c’è troppa forma nel mondo. Questo perché, come illustrano le scene crude e surreali del testo, c’è anche troppa vita (e non c’è forma senza vita). Maldoror tenta di realizzare un compito impossibile, che è quello di dis-formare attivamente e continuamente ogni forma, soprattutto la più faticosa delle forme, quella umana. Nonostante le sue molte invettive contro Dio, e nonostante le sue molte descrizioni assurde degli animali, la sfida posta da Maldoror non è una sfida contro la religione o la scienza. La vera sfida è questa: qual è la forma più adeguata dell’anti-umano? E tuttavia Maldoror può realizzare questo solo attraverso qualche forma; quindi la sua poetica della misantropia gotica deve assumere il guscio abbandonato della carcassa delle forme esistenti, sia della letteratura che della vita». (TLN 1367; corsivo aggiunto)
  11. Come scrive Michel Serres:
    «Il rumore non può essere un fenomeno; ogni fenomeno è separato da esso, una sagoma su uno sfondo, come un faro contro la nebbia, come ogni messaggio, ogni grido, ogni chiamata, ogni segnale deve essere separato dal baccano che occupa il silenzio, per essere, per essere percepito, per essere conosciuto . . . . Non appena un fenomeno appare, lascia il rumore; non appena una forma si profila, o si fa strada, si rivela velando il rumore. Quindi il rumore non è una questione di fenomenologia, ma dell’essere stesso».
    Vedi Michel Serres, Genesis [1982], trans. Geneviève James, et al (Ann Arbor: U of Michigan P, 1995), 13, [Genesi, trad. G. Polizzi, il nuovo Melangolo, Milano, 1988]. Di seguito citato nel testo come G.
  12.  Dylan Trigg, The Thing (Winchester, UK: Zero Books, 2014), 131.
  13. Daniel Rourke, “An Ontology of Everything on the Face of the Earth”, Alluvium 2.6 (2013). http://dx.doi.org/10.7766/alluvium.v2.6.02
  14. Qui uso la parola “estetica” in senso “discognitivo”, cioè come precedente alla cognizione o alla simbolizzazione. Come ha sottolineato Steven Shaviro: “Prima di essere cognitivo, e tanto meno cosciente, il pensiero è primordialmente un fenomeno affettivo ed estetico”. Vedi Steven Shaviro, Discognition (Winchester, UK: Repeater Books, 2016), 130. Kindle. Di seguito citato nel testo come D.
  15. Georges Bataille, “The Schema of Sovereignty” [1953], trans. Robert Hurley, in The Bataille Reader, eds. Fred Botting e Scott Wilson (Oxford, UK: Blackwell, 1997), 315.
  16. Come sottolinea Adrian West:
    «Georges Bataille sostiene una catena di associazioni che collegano l’ano alle feci, le feci alla putrefazione, e la putrefazione all’inutile, eccessivo o improduttivo, che deve essere evitato nelle società basate sull’accumulazione. Questa […] linea di ragionamento lascia molto da parte, […] come la proibizione generalizzata di qualsiasi traccia di escrementi nelle rappresentazioni filmate del sesso anale, che nominalmente lo esenta dall’inclusione tra quelle voglie devianti provocate, paradossalmente, dal disgusto (infatti, con l’eccezione dei video fatti per attrarre un piccolo mercato fetish, la pornografia offre un concetto idealizzato dell’ano come organo sessuale, e le sue funzioni escretorie sono soppresse)». Vedi Adrian West, The Aesthetics of Degradation (Winchester, UK: Repeater Books, 2016), 37.
  17. Un esempio recente di esfiltrazione gioiosa si trova nel romanzo di Lidia Yuknavitch, The Small Backs of Children (New York: HarperCollins, 2015):
    «Egli si preme contro la tela e pezzi di un corpo sbavano forme caotiche e casuali sul bianco. Dipinge selvaggiamente, fisicamente, con il suo corpo, le sue mani, i pennelli, gli oli, i fluidi, il sangue. Perché questo fa parte della sua fama: l’uso di fluidi corporei mescolati alla pittura per dipingere gigantesche facce astratte. Dipinge con i fluidi di un sé al di fuori del linguaggio e del pensiero, dipinge in attacchi barbarici di colore sulla tela del bianco, il nero della lotta o il cremisi Alizarin nato dal sangue, il blu di Prussia, la terra di Siena bruciata». (Kindle 1227)
  18. Questo è particolarmente evidente nel fenomeno mediatico delle “celebrità sudice”, dove la cerimonia della “riabilitazione delle celebrità” lavora per ri-mediatizzare il corpo-memoria precedentemente de-mediatizzato dal sudiciume.
  19. François Laruelle, Dictionary of Non-Philosophy, trans. Taylor Adkins (Paris: Editions Kimé, 1998). Si veda, in particolare, la voce idiosincratica di Laruelle sulla “Non-Technology” (49-51).
  20. C’è un interessante parallelismo tra il Maldoror di Thacker e il Proteo di Serres. Per Serres:
    «Proteo attua la metamorfosi: è animale, può essere elemento, acqua o fuoco. È inerte, è vivo… Contiene tutte le informazioni, non ammette alcuna informazione. È il possibile, è il caos, è una nuvola, è un rumore di fondo. . . . La catena che sostiene il fenomeno deve essere trovata. Incatenato, immobile, Proteo parla . . . La fisica è Proteo incatenato. Il rumore di fondo è questo Proteo mal legato . . . . Ecco un mito, appena un mito, che ci concede un’epistemologia . . ma attraverso un canale pieno di rumore». (G 14; corsivo aggiunto)
  21. Un’eccezione, forse, può essere il “metodo apofatico” di H.P. Lovecraft. Come sostiene David Roden, questo metodo
    “rivela un cosmo oscuro e inconoscibile che è, tuttavia, privo di trascendenza. L’altro azathothico sarebbe, in questo senso, un esempio di ‘orrore immondo’, non essendo al di là o ‘superiore’ alla materia ma intimamente coinvolto e attivo in un universo unitario, anche se alla fine caotico e privo di senso […] L’alieno radicale può essere incontrato, quindi, ma l’incontro rompe la processione ordinata del tempo storico e della produzione di conoscenza. Lascia il suo segno in affetti irriducibili: terrore, follia e desolazione fisica”.
    Vedi David Roden, “Metaphor at the Edge of the Human” http://enemyindustry.net/blog/?p=6059
  22. In parte, come reazione alle tradizionali rappresentazioni religiose occidentali del corpo come “originariamente corrotto” nel senso di portatore di peccato.
  23. In parte a causa della sostituzione delle rappresentazioni mitico-religiose del corpo con quelle tecnologiche.
  24. Come sostiene Steven Shaviro:
    «Le entità reattive sono energetiche prima di essere semiotiche. Per questo non possono essere adeguatamente descritte nei termini della teoria dell’informazione e della teoria dei sistemi. Concetti come “autopoiesi” di Maturana e Varela e “chiusura operativa” di Luhmann […] sono eccessivamente statici. Assumono che le entità reattive siano caratterizzate da una sottostante spinta a persistere nell’essere […] E così ignorano i modi in cui queste entità, con i loro enormi flussi e dispendi di energia, sono ugualmente spinte da una volontà di cambiamento, una spinta a ridurre i gradienti di energia, e quindi a spingere verso i propri limiti». (D 679)
  25. Cfr., per esempio, David Roden, Posthuman Life: Philosophy at the Edge of the Human (New York: Routledge, 2015), 166-193. Per le critiche e le complicazioni di questo modello cyborg, si veda Donna Haraway, Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature (New York: Routledge, 1991) [Manifesto Cyborg: Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 2018]; N. Katherine Hayles, How We Became Posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics (Chicago: University of Chicago Press, 1999).
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