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TECNOMORFOSI

Una conversazione con Germán Sierra

by / 11 Maggio 2022

Traduzione a cura di Filippo Scafi, Tommaso Garavaglia, e Stefano Moioli

Ne La Metamorfosi di Kafka non c’è nessuna radicale metamorfosi, ma l’installazione della coscienza umana nel corpo di un insetto. Così Germán Sierra evidenzia, nel pensiero contemporaneo, l’incapacità di pensare adeguatamente il cambiamento – incapacità che, di fronte alla complessità e alla molteplicità delle mutazioni che comporta la nostra relazione con la tecnologia, limita al solo conosciuto il campo del possibile.

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C: Dal punto di vista accademico puoi essere definito come uno scienziato, ma Germán Sierra è anche un romanziere, un pensatore, e un poeta. Se è vero che ognuno è una moltitudine, come è nata la tua? Ci sono stati incontri fondamentali?

GS: La mia biografia è piuttosto canonica: sono diventato uno scienziato grazie all’influenza di mio padre – neurologo e professore di fisiologia -; abbiamo collaborato a lungo. Da quando ne ho memoria, sono stato interessato alla letteratura, e ho iniziato a leggere filosofi che mi sembravano interessanti dal punto di vista letterario (Nietzsche, Cioran, Deleuze, Blanchot, Bataille…). Sono cresciuto come lettore “vizioso” alla fine degli anni ’70, quando gli autori del Boom latinoamericano e i postmodernisti francesi erano presenti ovunque. Non direi che ci sono stati incontri fondamentali, ma più un interesse diffuso al fine di esplorare punti di vista differenti. Ogni volta che qualcosa mi colpiva era come aprire un nuovo mondo di possibilità – cercavo solo di tenere aperte tante di quelle porte, invece di andare “in modo accademicamente rigoroso” verso una particolare disciplina… che è un altro modo per dire che mi faccio distrarre facilmente da qualsiasi cosa che mi sembri peculiarmente bella o particolarmente interessante…

C: Leggendo la tua risposta, ho subito pensato al valore che la letteratura ha per la propria formazione personale e individuale. C’è un tipo di letteratura che oggi ti sembra peculiarmente bella o particolarmente interessante?

GS: Sì, certo. Non direi che si tratta di un tipo specifico di letteratura, ma di autori che affrontano la letteratura come una forma d’arte aperta e potente. Solo per citarne alcuni tra quelli che scrivono in questo secolo: Blake Butler, Louis Armand, Joyelle McSweeney, Gary Shipley, Kenji Siratori, John Trefry, Aase Berg, Grant Maierhofer, Mike Corrao, Vi Khi Nao, William Vollmann, Gerald Murnane…

C: Ci sarebbe molto da dire su ognuno di loro, ma lo lasceremo per un’altra conversazione forse…

GS:  E io apprezzerei dei vostri consigli riguardo a giovani poeti e scrittori italiani di narrativa. Sono sicuro che ci sono alcuni nuovi editori interessanti in Italia di cui non ho mai sentito parlare.

C: Fortunatamente, nonostante i prevedibili acciacchi del mercato editoriale, si può dire che la letteratura è un’arte che non ha ancora cessato di interessare e sorprendere. Parlando proprio di questo mondo, tra la generazione di scrittori a cui sei spesso associato, la Generación Nocilla, non sei l’unico che ha alle spalle un background scientifico – mi viene in mente Agustín Fernández Mallo, ad esempio – e la tua opera attinge e si espande molto a partire da tale orizzonte. In un certo senso, potremmo dire che, in entrambi i vostri casi, il pensiero scientifico incontra la forma letteraria per una necessità: conquistare, o quantomeno affrontare, la complessità che contraddistingue il mondo contemporaneo. In effetti, ciò che emerge da opere come The Artifact, ma anche da altri tuoi saggi, è che la nostra epoca è un’epoca marcata dell’eccessiva multidimensionalità e della sovrabbondanza di regimi semiotici, e che per confrontarci con il reale nella sua totalità non possiamo contare su una sola disciplina; per questo la neurologia incontra la poesia, l’informatica la letteratura, la biologia la sociologia, la cibernetica la filosofia. Ritieni che siamo in qualche modo travolti dalla realtà generata dalla produzione sempre più rapida di nuove tecnologie e sistemi digitali? Come possiamo stare al suo ritmo di sviluppo? In quali modo le forme sperimentali di connessione a cui abbiamo accennato potrebbero aiutarci a dare un senso a ciò che sta accadendo intorno a noi?

GS: Non possiamo, ma questo non è necessariamente un male. In realtà non abbiamo mai potuto, anche se c’è stata questa mitologia moderna sulla prospettiva e possibilità di sapere tutto (o, almeno, il lato “pratico” di tutto), sia come individui – il mito moderno dell’intellettuale, del polimaco, dell’uomo (raramente della donna) rinascimentale, del genio, ecc. – sia collettivamente – teorie del tutto, sistemi filosofici “completi”, eccetera. Tra alcuni scienziati e all’interno di alcune discipline scientifiche, corre ancora la convinzione moderna che “spiegare tutto” sia solo una questione di tempo. Tuttavia, penso che stiamo diventando consapevoli del fatto – e in qualche modo lo stiamo accettando – che la conoscenza umana è un modello molto imperfetto e parziale della realtà, come pensavano i premoderni. Ora sembra più scioccante non solo perché questa idea contraddice i principi epistemici in cui siamo stati allevati, ma anche perché il nostro “non sapere” non riguarda solo cose lontane, astratte o inapprensibili (come galassie, dei o bosoni), ma anche cose che abbiamo fatto, gli stessi strumenti che usiamo per produrre beni o conoscere il mondo. 

La nostra tecnologia sta diventando inconoscibile, e questo fa paura. Come tutti, non ho idea di come affrontare la cosa. Se mi è permesso includere una lunga citazione, sono in qualche modo d’accordo con Mark Hansen quando scrive che “mentre questa dimensione ambientale ha portato alcuni teorici dei media contemporanei a caratterizzare i contemporanei media in rete come “inumani” (Galloway e Thacker), mi opporrei fermamente a qualsiasi mossa relativa al collegare la promessa dei nuovi media a qualche trascendenza fantasmatica dell’umano come forma di vita, e sosterrei invece che tale dimensione introduce una massiccia complessificazione nelle reti che ora collegano non solo macchine con macchine e umani con macchine in rete, ma anche umani con altri umani. All’interno del dominio ibrido aperto da questa complessificazione, la possibilità stessa di ripensare l’esperienza in quanto tale – e di intensificare la nostra esperienza specificamente umana – dipende dalla nostra capacità di creare connessioni con i processi microtemporali che, nonostante sfuggano alla nostra riflessione cosciente e alla percezione sensibile, hanno comunque un impatto significativo sulle nostre vite sensoriali”.

C: Il divenire inconoscibile della tecnologia è qualcosa che dovremmo iniziare a esaminare seriamente. Siamo allo stesso tempo sedotti e respinti dai nuovi dispositivi tecnologici e dai nuovi media, che stanno costruendo, diciamo, ciberneticamente un nuovo ambiente pluristratificato che siamo in qualche modo costretti ad abitare, ma di cui abbiamo ancora bisogno di dare un senso, specialmente senza avere un controllo completo sulla sua formazione. Infatti, secondo alcune prospettive della filosofia contemporanea della tecnologia, è di massima importanza impegnarsi nello sviluppo di una valutazione radicalmente nuova della tecnologia, o con la ricerca di forme positive di connessione con le sue derive: mi viene in mente la cosmotecnica di Yuk Hui, l’omeotecnologia di Peter Sloterdijk o l’approccio farmacologico di Bernard Stiegler, che fanno opportunamente eco all’idea di Hansen di creare legami con i processi microtemporali che impattano sulla nostra esperienza attraverso i sistemi digitali. Per altri, come Nick Land, il controllo è una mera illusione e gli interstizi a cui la tecnologia sta vincolando gli esseri umani stanno diventando sempre più ristretti. È proprio all’interno di questa speculazione (necessariamente) orientata al futuro sul destino dell’umanità che la fantascienza ha invaso come un ospite inquietante un certo filone del dibattito filosofico. Pensi che essa possa davvero avere un ruolo attivo in questo gioco? E, se sì, in che modo?

GS: Assolutamente. La fantascienza (e altri generi speculativi come l’horror) sono al centro di molte speculazioni filosofiche, in questo momento. Un ottimo esempio di ciò è il modo in cui Discognition di Steven Shaviro (una serie di narrazioni di fantascienza che sollevano domande sulla coscienza e sul pensiero) fornisce intuizioni sulla cognizione migliori della maggior parte dei manuali scientifici sull’argomento. 

Tuttavia, la maggior parte degli approcci filosofici alla fantascienza e all’horror (il già citato libro di Shaviro, Thacker su Lovecraft e Ligotti, Land sui viaggi nel tempo…) fanno ancora riferimento a narrazioni convenzionali che non affrontano l’incertezza della mutazione radicale del soggetto – come La Metamorfosi di Kafka non rappresenta una vera metamorfosi, ma solo una mente umana intrappolata nel corpo di un insetto.

Mi è stata recentemente ricordata una citazione di Paul Valery in un thread su Twitter molto riflessivo di Thomas Murphy: “Ogni predizione è conservativa, esige che noi siamo come siamo ora in qualsiasi futuro essa costruisca”. La maggior parte delle indagini filosofiche sulla fantascienza non superano questo “problema dell’osservatore”: l’osservatore non sembra mai cambiare mentre il mondo cambia.

Questa è una delle mie principali obiezioni alla maggior parte delle attuali teorie dei media: che quei “modi di connessione positivi” sono umano-essenzialisti, basati su come siamo ora, non sugli esseri sconosciuti e inconoscibili che saremmo/potremmo diventare nella nostra interazione con la tecnologia. La conseguenza di pensare in questo modo è che restiamo sulla difensiva contro trasformazioni veramente imprevedibili. In questo senso, l’approccio di David John Roden al postumano (sia nel suo libro di saggi che nella sua recente fiction Snuff Memories) e lo xenofemminismo (specialmente il lavoro della filosofa australiana Amy Ireland) mi sembrano più contemporanei.

Sono d’accordo con la diagnosi di “illusione del controllo” di Land, anche se non condivido la sua illusione di teleologia…

C: Interessante. In effetti, prendendo spunto da Thomas Nagel, potremmo dire che stiamo ancora pensando a che effetto fa essere un pipistrello: ci stiamo ancora chiedendo, insomma, cosa ciò significherebbe per noi stessi (se fossimo – o diventassimo – un pipistrello), quindi senza davvero sfuggire a un punto di vista antropocentrico. D’altra parte, non è davvero facile superare questa gabbia cognitiva – il progetto di stampo neorazionalistico in cui si è imbarcato Reza Negarestani potrebbe essere visto come un tentativo di superamento di tale gabbia, ma lascia ancora spazio (e in questo senso sono d’accordo con lui) per una sorta di ritorno all’umano, nel suo caso sostenendo una riconcettualizzazione o una riprogettazione dei modi in cui esprimiamo e pensiamo questo anthropos. È stato piuttosto l’umanesimo, come categoria di pensiero, a non riconoscere in qualche modo la vera natura dell’essere umano – la quale, sulla scorta di un quadro anti-essenzialista, è invero metamorfica e plastica fino al midollo. Sloterdijk parla dell’umanità come dell’arte di creare transizioni, e tu sembri suggerire che dovremmo fare un salto verso la più radicale delle transizioni, dove il tipo di essere che possiamo diventare è da riconcepire in maniera drammatica: alcune prese di posizione post- e trans-umane su questo argomento sono principalmente interessate alle configurazioni corporee e materiali di questo essere-ancora-da-conoscere, ma che dire della sua controparte “spirituale”? Ci stiamo silenziosamente avvicinando alla forma più bassa di monismo o c’è ancora spazio per, attingendo da Bergson, una sorta di monismo dinamico dove mente e materia generano una sintesi di ciò che siamo? Se sì, come dovremmo pensarlo, con un riferimento specifico agli “aggiornamenti” dell’istanza mentale?

GS: In fin dei conti sono un materialista, quindi non credo proprio che ci sia una differenza essenziale tra mente e materia. Non considero le menti solo come una “proprietà” o una “tendenza” della materia, ma come uno dei modi in cui la materia e l’energia potrebbero organizzarsi spontaneamente in alcune condizioni. La materia si organizza spontaneamente in diversi tipi di sistemi complessi, e le menti sono tra questi. Questi processi non sono né totalmente casuali, né deterministici. Una transizione radicale probabilmente interesserebbe diversi livelli di organizzazione, ma accettare l’imprevedibilità del suo esito non implica che l’umanità diventerebbe necessariamente qualcosa di completamente diverso a tutti i livelli. Inoltre, l’umanità potrebbe alla fine essere un vicolo cieco nell’evoluzione, e ciò che chiamiamo “ragione” o “spirito”, una minuscola scintilla vivente dell’organizzazione della materia.

Inoltre, mi oppongo al riduzionismo, quindi non penso che le menti possano essere spiegate solo dalle leggi della biologia (molte delle quali non conosciamo ancora). È ormai generalmente accettato che gli esseri viventi non possono essere spiegati solo dalle leggi della fisica (naturalmente, le leggi della fisica non possono essere contraddette dagli esseri viventi, e la biologia non dovrebbe essere contraddetta quando si cerca di studiare la mente). Quindi potremmo dire che, in questo senso, la biologia è già meta-fisica, e una corretta scienza della mente dovrebbe essere meta-biologia.

Per me il neorazionalismo è interessante come modo speculativo per trovare alcuni percorsi verso nuove scienze della mente. Tuttavia, non penso, come fanno alcuni filosofi, che ci sia una “ragione” astratta e trascendentale che possa essere (o sia mai stata) separata dalla biologia. La ragione umana continuerà a girare intorno all’uomo (in continua evoluzione), e sarà la forza principale che guida la trasformazione umana. Anche se la cibernetica e le procedure di calcolo diventassero proceduralmente “indipendenti” dall’uomo, sarebbero ancora elementi della mente umana espansa. Questo non significa che escludo la possibilità di una mente non umana, è solo che credo che sarebbe totalmente indipendente dall’esistenza degli umani.

C: Uno dei temi che attraversa, forse più di altri, The Artifact è quello della corporeità: nel corso del testo sembra emergere sempre più urgentemente come un concetto che può sembrare conchiuso, come quello di corpo, sia invece labile e in costante trasformazione. Sulla scorta di questo paradigma estesiologico e della sovrapposizione plessneriana tra corpo-che-sono e corpo-che-ho, mi viene in mente questo breve passo tratto dall’Inquilino del terzo piano di Polanski:  

«A partire da che momento, si domandò Trelkovsky, l’individuo non è più quello che noi pensiamo? Mi tolgono un braccio, va bene. Dico: io e il mio braccio. Mi tolgono anche l’altro, dico: io e le mie due braccia. Mi amputano le gambe, dico: io e le mie membra. Tolgono il mio stomaco, il mio fegato, i miei reni, ammesso che sia possibile, dico: io e le mie viscere. Mi tagliano la testa: cosa dico? Io e il mio corpo o io e la mia testa? Con che diritto la mia testa, che dopotutto non è che un membro, si arroga il titolo di “io”? Perché contiene il cervello? Ma ci sono delle larve, dei vermi, eccetera, che non possiedono un cervello. Per questi esseri allora esistono da qualche parte dei cervelli che dicono: io e i miei vermi?»

In un’epoca in cui la commistione bio-tecnologica sembra sfumare sempre più i confini di concetti come io e corpo, è ancora possibile tracciare una linea netta di demarcazione per provare a rispondere alle domande – per quanto retoriche – di Trelkovsky? Secondo te questa sorta di fuoriuscita del soggetto da sé, può assumere un valore metamorfico e riscrivere i limiti del soggetto stesso?

GS: Spesso inizio le mie lezioni di Master in neuroscienze dicendo ai miei studenti che le neuroscienze sono troppo centrate sul cervello, il che è ovviamente una conseguenza della sua metodologia, ma non riflette molto bene come i cervelli possano effettivamente funzionare. Quindi non ho dubbi che la mia testa non ha più diritto di chiamarsi me di quanto ne abbia la mia mano o il mio pancreas… tuttavia, la questione che ho cercato di affrontare in alcuni dei miei romanzi è più su cosa sia un corpo individuale; dove finisce? Se ho una protesi, o un impianto medico necessario per rimanere in vita, fanno parte del mio corpo? Sono io? Che dire di un impianto biochimico come il DNA o l’RNA estraneo? Che dire di una percezione che cambia la struttura di molte reti cellulari nel mio cervello? Mi piace l’idea di Clark & Chalmers della mente estesa – direi “cervello esteso”, e perché non “corpo esteso”? Forse il sé e la soggettività sono solo sofisticati trucchi molecolari messi in atto dal cervello a causa della necessità performativa di differenziare il “sé” dal “non sé” come fa il sistema immunitario, e quelli che consideriamo i limiti “naturali” del corpo e i confini cognitivi del soggetto sono solo segni territoriali transitori. 

Anche per la maggior parte dei filosofi del divenire, la metamorfosi implica la trasformazione in qualcosa che è già noto, o almeno immaginato, una specie di processo teleologico o teleoplessico guidato da attrattori trascendentali. La tecnoscienza produce modelli socialmente accettabili di ciò che l’umanità potrebbe diventare: dovrebbe esserci uno scopo per la trasformazione. Sono più interessato ad esplorare gli spazi immanenti di possibilità (l’adiacente possibile, nelle parole di Kaufmann) che porterebbero il corpo/sé ad immaginarsi non trasformato in qualche avatar ancora sconosciuto ma già teoricamente esistente come attrattore, ma scivolare nell’apertura radicale dell’indeterminatezza.

​​C: Il riferimento a Stuart Kauffman è molto interessante perché mette in gioco anche l’idea di sacro. Molta della produzione più popolare e filosofica di Kauffman discute l’adiacente possibile, come campo di immanenza, nei termini di una sorta di riscoperta, o piuttosto di reinvenzione, del sacro: il nostro “trovarci a casa”, sia come esseri umani che come sistemi biologici, in un universo in continua e indeterminabile auto-creazione. Questo sembra aprire una nuova nozione di ineffabilità, dove il futuro nella ricchezza delle sue possibilità rimane oscuro e intangibile fino a quando alcune di tali possibilità non vengono attualizzate; una nuova esperienza di fede oltre la religione potrebbe essere in gioco. È questo che intendi quando parla di scivolare nel radicalmente indeterminato? Può esserci spazio oggi per una riscoperta della fede come forma di conoscenza non invasiva e contemplativa?

GS: Immagino che questa possa essere una via d’uscita provvisoria – qualcosa come il luminoso rovescio della medaglia dell’orrore della filosofia di Thacker. Mi piacciono gli scritti di Nicola Masciandaro per le sue prese di posizione simultanee su entrambi gli aspetti. 

Ho avuto un “lato contemplativo” per tutta la vita, ma probabilmente sono troppo scettico e troppo irrequieto per prenderlo abbastanza sul serio… 

C: Parole come “strano” ed “indeterminato”, unitamente all’antitesi tra conosciuto e sconosciuto, sono termini centrali in una delle, almeno a mio avviso, più interessanti trattazioni contemporanee delle dinamiche estetiche del weird: The weird and the eerie di Mark Fisher. Nel testo sembra emergere come secondo Fisher al cuore della nostra esperienza del mondo risieda, latente, una potente carica eerie: se, così come anche tu sostieni, la nostra conoscenza del mondo è inconsapevolmente frammentaria e costellata di vuoti epistemici, allora la sensazione che «qualcosa non va» può essere in parte motivata da questo costante fallimento di presenza di senso. La mia domanda è la seguente: la consapevolezza di questa incompletezza conoscitiva, la resa davanti alla limitatezza delle peculiarità umane, in che modo può plasmare il nostro agire? Può questa consapevolezza operare un decentramento della soggettività e assumere un significato, in qualche modo, politico? 

GS: Questo potrebbe stare accadendo lentamente già da un po’, ma è difficile da apprezzare perché siamo troppo incorporati nelle rappresentazioni di una realtà sociale obsoleta e in rapido collasso. È una soggettività decentralizzata che agisce come se il modello di realtà prodotto per integrare attori individualmente completi non fosse finito. A mio parere, sarà difficile agire in modo significativo in politica finché non arriveremo a definire cos’è una polis ora. La nostra idea di polis è troppo dipendente dalle strutture moderne (stati-nazione, famiglie, lavoro retribuito, identità stabile, “salute”) che non possono rappresentare o ospitare le condizioni sociali attualmente in evoluzione – ma non vogliamo abbandonarle perché in qualche modo hanno funzionato per molto tempo, e non sappiamo cosa viene dopo… Stiamo sperimentando (anche se spesso non lo riconosciamo) il disaccoppiamento di cose che sono state accoppiate cognitivamente per millenni, e, nonostante la convinzione generale che siamo “postmoderni”, Bruno Latour sembrava avere ragione quando diceva che non siamo mai stati moderni. 

Questa finta modernità ha comunque funzionato, e abbiamo ottenuto una tecno-scienza e un’arte impressionanti, tra molte altre cose…

Così la maggior parte delle azioni politiche (e degli attori politici) non possono distaccarsi dalle istituzioni pseudomoderne, gerarchicamente strutturate (ogni alternativa sociale finisce per riprodurle, a volte in forma di beffa), e non possono evitare di cercare potere e influenza attraverso quelle strutture (il che potrebbe anche essere buono a breve termine, ma interferisce con altre speculazioni più radicali). 

Questo è, a mio avviso, il motivo per cui alcune delle intuizioni di Fisher e delle proposte xenofemministe sono difficili da introdurre nella pratica politica attuale. Per fare un esempio, è più probabile che una comunità emarginata lotti per avere accesso ai vantaggi percepiti dell’integrazione in una società mainstream, piuttosto che correre il rischio di immaginare una reale alternativa cognitiva. Il problema è che le strutture mainstream stanno crollando, e i vantaggi che si aspettavano (non solo uno standard di vita più alto, ma anche quelli cognitivi ed emotivi) non ci sono più per nessuno. Stiamo ottenendo un duplicato a basso costo di una “società moderna” che non è mai esistita, e la maggior parte delle azioni politiche sono mirate solo a renderla disponibile a tutti. Non ho una buona soluzione per ciò. Continuo a pensarci perché sono troppo scettico e troppo inquieto…

C: Sì, effettivamente rispondere al canonico Che fare?, tradurre in pratica delle, anche brillanti, intuizioni teoriche, sembra essere uno dei grandi scogli su cui si sta scontrando la (post)modernità. A proposito di modernità e postmodernità, visto che citi Latour, mi permetto di farti un’ultima domanda, ancora in relazione a The Artifact. Secondo Latour la modernità è costituita da due gruppi di pratiche che coesistono in virtù di, potremmo dire, un gioco di prestigio: da un lato si ha un lavoro di traduzione che crea incessantemente ibridi di natura e cultura, dall’altro un lavoro di depurazione che definisce due aree ontologicamente separate (umano/non-umano); mentre da una parte si fa sì che l’opera di mediazione che assembla gli ibridi sia invisibile, dall’altra se ne permette una proliferazione incontrollata (degli ibridi) di cui, al contempo si nega l’esistenza e la possibilità. Da questi presupposti, che io condivido, possiamo affermare, secondo te, che l’area dell’umano è stata costituita attraverso un costante ricorso al non-umano? In un certo senso, non potremmo dire che l’essere umano è essenzialmente e costitutivamente ibrido? Non è forse esso stesso, il più grande artefatto? 

GS: I dualismi moderni come naturale/artificiale e umano/non umano sono problematici quanto la questione mente/corpo. Sono tutti radicati in una visione fortemente antropocentrica e poco scientifica della realtà, eppure sono al centro della scienza moderna. Superare questi dualismi sembra essenziale non solo per il futuro progresso della scienza, ma anche per comprendere e integrare pienamente la nostra attuale conoscenza del mondo. Forse non siamo ancora arrivati al punto in cui potremmo presentare alternative coerenti a tutte le principali premesse e assiomi della modernità, quindi il presente sembra più transitorio ora come ora…

Sì, certo, gli umani sono ibridi in molti, molti modi. Siamo olobioni e “olologhi”. Siamo fatti di esseri estranei e portiamo molto DNA estraneo (virale e batterico, almeno) nel nostro genoma. Modifichiamo il mondo per rendercelo disponibile attraverso le nostre limitatissime capacità sensoriali. Creiamo strumenti e siamo fatti di essi e da essi. Ci aspettiamo di diventare artefatti di nostra creazione, ma in realtà esistiamo come artefatti delle tecniche che abbiamo adottato.

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