Cent’anni di crisi

by / 28 Aprile 2020

Se mai la filosofia si è palesata aiutando, salvando, o proteggendo, ciò è avvenuto rispetto ai sani: i malati sono stati resi da essa ancora più malati. 
–Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci

§1. Il centenario della “Crisi dello spirito”1

Nel 1919, dopo la Prima Guerra Mondiale, il poeta francese Paul Valéry, nel suo Crisi dello Spirito, scrisse “Le nostre civiltà sanno adesso d’essere mortali”2. È solo in una catastrofe di questo tipo, a posteriori, che comprendiamo di non esser altro che degli esseri fragili. Cento anni dopo, un pipistrello dalla Cina—se effettivamente il coronavirus proviene da un pipistrello—ha trascinato il pianeta in un’altra crisi. Se Valéry fosse ancora vivo, non potrebbe uscire dalla sua casa in Francia. 

La crisi dello spirito nel 1919 fu preceduta da un nichilismo, un nulleggiare, che perseguitò l’Europa prima del 1914. Come scrisse Valéry riguardo la scena intellettuale prima della guerra: “Io vedo … nulla! Nulla … e ancora un infinitamente potenziale nulla.” Nel suo poema del 1920, intitolato Il cimitero marino leggiamo un’affermativa chiamata nietzscheana: “Il vento si sta alzando! … Dobbiamo provare a vivere!” Questo verso fu successivamente adottato da Hayao Miyazaki come titolo del suo film d’animazione su Jiro Horikoshi, l’ingegnere che progettò aerei da combattimento per l’impero giapponese che furono impiegati nella Seconda Guerra Mondiale. Questo nichilismo ritorna ricorsivamente nella forma di esame psicologico nietzscheano: un demone invade la nostra più profonda solitudine e ci pone di fronte alla possibilità che la nostra vita sia un eterno ritorno dell’eguale—lo stesso ragno, lo stesso chiaro di luna tra gli alberi, e il medesimo demone che porge la stessa domanda. Qualsiasi filosofia che non possa sopportare di confrontarsi direttamente con questo nichilismo non è capace di produrre risposte sufficienti, dacché renderebbe una cultura malata ancora più malata, oppure, nel nostro tempo, decadrebbe nei ridicoli meme filosofici che circolano sui social media. 

Il nichilismo contestato da Valéry è stato continuamente alimentato dall’accelerazione tecnologica e dalla globalizzazione fin dal XVIII secolo. Come scrive verso la fine del suo saggio:

“Dovrebbe, lo spirito Europeo – o almeno il suo contenuto più prezioso – essere capillarmente diffuso? Devono, fenomeni come la democrazia, lo sfruttamento del globo e la generale diffusione della tecnologia, che presagiscono tutti una deminutio capitis per l’Europa … devono, questi, essere considerati sentenze assolute del destino?”3

Questa minaccia di diffusione—che l’Europa potrebbe aver tentato di affermare—non è più qualcosa che può essere affrontato dall’Europa soltanto, e probabilmente non verrà superata per mezzo del “tragista” [l’autore utilizza il termine “tragist”, ndt] spirito europeo4. Il “tragista” è prima di tutto legato alla tragedia greca, ma è anche la logica dello spirito che cerca di risolvere contraddizioni che nascono dall’interno. In What Begins After the End of Enlightenment? e altri saggi, ho cercato di spiegare come, dai tempi dell’illuminismo, e dopo il declino del monoteismo, quest’ultimo fu rimpiazzato da un mono-tecnologismo (o tecno-teismo), che oggi culmina con il transumanesimo5. Noi moderni, gli eredi culturali dell’Amleto europeo (che, ne La crisi dello spirito di Valéry volge indietro lo sguardo verso l’eredità intellettuale europea che conta sugli scheletri di Leibniz, Kant, Hegel e Marx), cento anni dopo lo scritto di Valéry, abbiamo creduto e continuiamo a credere che diventeremo immortali, che saremo capaci di migliorare il nostro sistema immunitario contro ogni tipo di virus o che semplicemente fuggiremo su Marte quando si presenteranno tempi peggiori. Nel bel mezzo della pandemia di coronavirus, le ricerche concernenti i viaggi su Marte appaiono irrilevanti per stoppare la diffusione del virus e salvare vite umane. Noi mortali che ancora abitiamo questo pianeta chiamato Terra potremmo non avere l’occasione di aspettare di diventare immortali, come hanno propagandato i transumanisti attraverso i loro slogan. Una farmacologia del nichilismo dopo Nietzsche deve ancora essere scritta, ma la tossina ha già pervaso il corpo globale e causato una crisi nel suo sistema immunitario. 

Per Jacques Derrida (la cui vedova, Marguerite Derrida, è recentemente venuta a mancare a causa del coronavirus), l’attacco dell’11 settembre 2001 alle torri gemelle segnò la manifestazione di una crisi autoimmune, dissolvendo la struttura tecno-politica del potere che è rimasta stabile per decenni: un Boeing 767 fu usato come arma contro lo stato che lo progettò, come una cellula o un virus mutato dall’interno6. Il termine “autoimmune” è solo una metafora biologica quando utilizzata in un contesto politico: la globalizzazione è la creazione di un sistema mondiale la cui stabilità dipende dall’egemonia tecno-scientifica ed economica. Di conseguenza, l’11 settembre emerse come la rottura che segnò la fine della configurazione politica voluta dalla cristianità occidentale fin dall’illuminismo, invocando una risposta immunologica espressa come uno stato permanente di eccezione—guerre su guerre. Il coronavirus ora porta al collasso questa metafora: il politico e il biologico diventano un tutt’uno. I tentativi di contenere il virus non solo coinvolgono disinfettanti e medicine, ma anche mobilitazioni militari e lockdown per stati, confini, voli internazionali, e treni. 

Verso la fine di gennaio, la rivista Der Spiegel pubblicò un numero intitolato Coronavirus, Made in China: Wenn die Globalisierung zur tödlichen Gefahr wird (Quando la globalizzazione diventa un pericolo mortale), illustrato con un’immagine raffigurante una persona cinese in eccessivo equipaggiamento protettivo che guarda un iPhone con gli occhi semichiusi, come se stesse pregando7. Lo scoppio dell’epidemia di coronavirus non è un attacco terroristico—fin qui, non ci sono state chiare evidenze sulle origini del virus oltre la prima apparizione in Cina—, esso è piuttosto un evento organologico in cui il virus si attacca a reti avanzate di trasporto, viaggiando a velocità superiori ai 900 km all’ora. Sembra inoltre un evento teso a riportarci al discorso dello stato-nazione e ad una geopolitica definita dalle nazioni. Con “riportarci a” intendo dire che, prima di tutto, il coronavirus ha ripristinato il significato dei confini, che erano apparentemente svaniti con il capitalismo globale e con l’incremento della mobilità promosso dagli scambi interculturali e dal commercio internazionale. Lo scoppio globale della pandemia ha annunciato che la globalizzazione, fin qui, ha meramente coltivato una cultura mono-tecnologica che può solo portare a risposte autoimmuni e ad una grande regressione. In secondo luogo, il ritorno agli stati-nazione ha rivelato i limiti storici e attuali di tale concetto. I moderni stati-nazione hanno tentato di soverchiare questi limiti attraverso guerre di informazione immanenti, costruendo infosfere che si muovono al di là dei confini. Tuttavia, invece di aver prodotto un’immunologia generale, queste infosfere si sono servite dell’apparente contingenza dello spazio globale per condurre una guerra biologica. Una immunologia globale che potremmo utilizzare per affrontare questo stadio della globalizzazione non è ancora disponibile, e potrebbe non esserlo mai se questa cultura mono-tecnologica persiste. 

§2. Uno Schmitt Europeo vede milioni di fantasmi

Durante la crisi europea dei rifugiati del 2016, il filosofo Peter Sloterdijk criticò, in un’intervista alla rivista Cicero, la cancelliera tedesca Angela Merkel, dicendo, “non abbiamo ancora imparato a glorificare i confini…prima o poi gli europei svilupperanno un’efficiente politica dei confini comuni. A lungo termine, gli imperativi territoriali prevarranno. Dopo tutto, non esiste alcun obbligo morale all’autodistruzione.”8 Anche se Sloterdijk si sbagliava nel dire che la Germania e l’UE avrebbero dovuto chiudere i loro confini ai rifugiati, a posteriori potremmo dire che egli aveva ragione circa il fatto che la questione dei confini non era stata trattata con i dovuti riguardi. Roberto Esposito ha chiaramente detto che una logica binaria (polare) persiste in relazione alla funzione dei confini: da una parte, si insiste in controlli sempre più stretti come difesa immunologica contro nemici esterni—una comprensione classica ed intuitiva dell’immunologia in quanto opposizione tra sé e gli altri—mentre dall’altra parte si propone l’abolizione dei confini per consentire libertà di mobilità e possibilità di associazioni/assembramenti di beni ed individui. Esposito suggerisce che nessuno dei due estremi—ed è piuttosto ovvio oggigiorno—è eticamente e praticamente indesiderabile9

Lo scoppio del coronavirus in Cina—a partire da metà novembre fino a che un’allerta ufficiale fu annunciata a fine gennaio, in seguito al lockdown della città di Wuhan il 23 di gennaio—portò immediatamente ad un controllo internazionale dei confini nei riguardi di persone cinesi o addirittura contro persone dai tratti somatici orientali in generale, identificati come portatori del virus. L’Italia fu uno dei primi stati ad imporre un veto di viaggio sulla Cina; già a fine gennaio, il conservatorio di Santa Cecilia a Roma sospese studenti “orientali” dalle lezioni, anche coloro i quali non sono mai stati in Cina in vita loro. Questi atti—che potrebbero essere definiti immunologici—sono motivati in realtà dalla paura, e più profondamente dall’ignoranza. 

Ad Hong Kong—proprio vicino a Shenzen, nella provincia di Guangdong, una delle zone più colpite al di fuori dalla provincia di Hubei—si levarono voci pressanti contro il governo per chiudere i confini con la Cina. Il governo rifiutò, citando l’avviso che l’OMS diede alle nazioni di non imporre divieti di viaggi o restrizioni commerciali nei confronti della Cina. In quanto rappresentante di una delle due speciali regioni amministrative della Cina, Hong Kong non dovrebbe opporsi alla Cina e né tantomeno accrescere il recente peso della deludente crescita economica. Tuttavia, alcuni ristoranti di Hong Kong affissero dei volantini sulle loro porte annunciando che i clienti che parlano dialetto mandarino non sarebbero stati i benvenuti. Il mandarino è infatti associato alle persone cinesi portatrici di virus, e pertanto il dialetto costituisce un segnale d’allarme. Un ristorante che in condizioni abituali è aperto a chiunque, è ora aperto solo a certe persone. 

Tutte le forme di razzismo sono fondamentalmente immunologiche. Il razzismo è un immunogeno sociale, giacché distingue chiaramente il sé e l’altro e reagisce contro ogni forma di instabilità introdotta dall’altro. Ad ogni modo, non ogni atto immunologico può considerarsi razzista. Se non confrontiamo l’ambiguità che sorge tra le due sfere, finiamo col riversare tutto quanto nella notte dove tutte le vacche sono grigie. Nel caso di una pandemia globale, una reazione immunologica è inevitabile quando la contaminazione è facilitata da voli e treni intercontinentali. Prima della chiusura di Wuhan, 5 milioni di abitanti fuggirono trasportando involontariamente il virus fuori dalla città. Infatti, è totalmente irrilevante essere etichettati come provenienti da Wuhan, dal momento che il virus può giacere latente per giorni in un corpo senza sintomi, mentre continua a contaminare ciò che lo circonda. Ci sono istanze immunologiche da cui una persona non può facilmente scappare quando xenofobie e microfascismi diventano fenomeni comuni nelle strade e nei ristoranti: quando tossisci involontariamente, tutti ti fissano. Oggi più che mai, le persone richiedono una immunosfera – ciò che ha suggerito Peter Sloterdijk—come protezione e organizzazione sociale. 

Pare che le azioni di carattere immunologico, che non possono essere puramente ridotte ad atti razzisti, giustifichino un ritorno ai confini – individuali, sociali e nazionali. Nell’immunologia biologica, così come in quella politica, dopo decenni di dibattito attorno al paradigma sé-altro e a quello organismico, gli stati moderni hanno fatto ritorno al controllo dei confini come la più semplice e più intuitiva forma di difesa, anche quando il nemico non è visibile10. Infatti, stiamo combattendo solo contro l’incarnazione del nemico. Siamo tutti legati a ciò che Carl Schmitt definisce come il politico, pensato a partire dalla distinzione tra amico e nemico – una definizione non facilmente negabile, e probabilmente rafforzata durante la pandemia. Quando il nemico è invisibile, necessita di essere incarnato e identificato: prima i cinesi, poi gli asiatici, e dopo ancora gli europei, i nord americani; oppure, entro i confini cinesi, gli abitanti di Wuhan. La xenofobia nutre il nazionalismo, sia del proprio, da cui viene considerato come un inevitabile atto immunologico, sia dell’altro che mobilita la xenofobia per rafforzare il suo stesso nazionalismo come immunologia. 

La lega delle nazioni fu fondata nel 1919, dopo la Prima Guerra Mondiale, e fu seguita dalle Nazioni Unite come strategia per evitare guerre attraverso il raduno delle nazioni in un’organizzazione comune. Forse la critica di Schmitt nei confronti di questo tentativo era accurata nel sostenere che la lega delle nazioni, che l’anno scorso ha festeggiato il suo centenario, ha erroneamente individuato nell’umanità il fondamento comune della politica mondiale, quando invero l’umanità non è un concetto politico. Al contrario, il concetto di umanità è un concetto depoliticizzante, dal momento che identificare un’astratta umanità che non esiste può risolversi nel cattivo uso dei “concetti di pace, giustizia, progresso, civiltà, per rivendicarli per sé e sottrarli al nemico”11. Come sappiamo, la lega delle nazioni era un gruppo di figure rappresentative di diversi paesi che fu incapace di impedire una delle più grandi catastrofi del XX secolo, la Seconda Guerra Mondiale, e fu dunque rimpiazzata dalle Nazioni Unite. Non potremmo quindi applicare lo stesso argomento all’Organizzazione Mondiale della Sanità, che è una organizzazione globale fondata per trascendere i confini nazionali e occuparsi di avvertire dei pericoli, elargire consigli e fornire supporto relativamente a problemi di sanità globale? Considerando che l’OMS non ha virtualmente avuto alcun ruolo positivo nel prevenire la diffusione del coronavirus—forse addirittura negativo: il suo direttore generale rifiutò di definirlo un virus pandemico fino a che non fu evidente a chiunque—cosa rende effettivamente necessario l’OMS? Naturalmente, il lavoro che i professionisti svolgono nell’organizzazione merita un enorme rispetto, ma va tuttavia evidenziato che il caso coronavirus ha generato una crisi nelle funzioni politiche dell’organizzazione più in generale. Peggio ancora, potremmo anche criticare un organo di governo globale di tali proporzioni che brucia denaro, a causa del proprio fallimento, sulle piattaforme dei social media, il che è equiparabile a sparare al vento, ma nessuno ha realmente la capacità di cambiare qualcosa, in quanto i processi democratici sono riservati alle nazioni. 

§3. Il cattivo infinito del mono-tecnologismo

Seguendo Schmitt, l’OMS è in prima istanza uno strumento di depoliticizzazione, poiché la sua funzione di ammonimento riguardo il coronavirus avrebbe potuto essere svolta meglio da qualsiasi agenzia d’informazione. Non è un caso che un numero di paesi abbia agito troppo lentamente per colpa del giudizio precoce dell’OMS sulla situazione. Come scrive Schmitt, un corpo internazionale di rappresentazione governativa, prodotto nel nome dell’umanità, “non elimina la possibilità di guerre, così come non elimina gli Stati. Essa anzi introduce nuove possibilità di guerre, le permette, stimola guerre di coalizione mette da parte una serie di ostacoli alla guerra nella misura in cui legittima e sanziona alcuni conflitti e non altri.”12. Non è forse la manipolazione delle strutture di governance globale da parte del capitale transnazionale, fin dalla Seconda Guerra Mondiale, solo una continuazione di questa logica? Questo virus, che era inizialmente controllabile e limitabile, non ha forse fatto crollare il mondo in uno stato di guerra generale? Di fatto, queste organizzazioni hanno contribuito ad una malattia globale, dove competizione economica mono-tecnologica ed espansione militare sono gli unici obiettivi, strappando gli esseri umani dalle loro comunità radicate nella terra e rimpiazzandole con identità fittizie modellate dai moderni stati-nazione e dalle guerre di informazione. 

Il concetto di stato di eccezione o stato di emergenza fu originariamente pensato per permettere al sovrano di immunizzare il bene comune, ma dall’11 settembre ha iniziato a farsi norma politica. La normalizzazione dello stato di emergenza non è solo l’espressione del potere assoluto del sovrano, ma anche del moderno stato-nazione che si sforza, fallendo, di confrontarsi con la situazione globale attraverso l’espansione e l’istituzione dei suoi confini utilizzando tutta la tecnologia e gli strumenti economici disponibili. Il controllo dei confini è un atto immunologico efficace soltanto se si comprende la geopolitica nei termini di sovranità limitata all’interno di confini. Dopo la Guerra Fredda, l’incremento della competizione è risultato in una cultura mono-tecnologica che non equilibra più il progresso economico e tecnologico, ma piuttosto li assimila mentre si muove verso un punto di non ritorno apocalittico. La competizione basata sulla mono-tecnologia sta devastando le risorse del pianeta per interesse di profitto, e agisce di modo che venga annullata la possibilità di ogni agente di considerare e intraprendere strade e direzioni differenti – la “tecno-diversità” di cui ho scritto in maniera estesa. La tecno-diversità non significa che differenti paesi producono lo stesso tipo di tecnologia (mono-tecnologia) con diversi brand e caratteristiche leggermente differenti. Piuttosto, essa si riferisce ad una molteplicità di cosmotecniche che differiscono le une dalle altre in termini di valori, epistemologie, e forme di esistenza. La forma corrente della competizione che utilizza strumenti economici e tecnologici al fine di oltrepassare la politica è spesso attribuita al neoliberalismo, mentre il suo parente prossimo, il transumanismo, considera la politica solamente come un’epistemologia umanista da superare e dimenticare in fretta, attraverso l’accelerazione tecnologica. Arriviamo, così, ad un’impasse della modernità: non è possibile tirarsi fuori da questa competizione per paura di essere sorpassati dagli altri. È come la metafora dell’uomo moderno descritta da Nietzsche: un gruppo abbandona per sempre il proprio villaggio per prendere il mare verso l’infinito, ma, giungendo nel mezzo dell’oceano, comprende che l’infinito non è una destinazione13. Non c’è niente di più terrificante dell’infinito, quando ogni possibilità di tornare indietro svanisce.

Il coronavirus, come tutte le catastrofi, potrebbe spingerci a porre la domanda riguardo a dove stiamo andando. Anche se sappiamo che la direzione è il nulla, comunque, siamo stati almeno spinti da un tragico impulso a “provare a vivere”. Nel mezzo della competizione intensificata, l’interesse degli stati è focalizzato sulla crescita economica – qualsiasi cura verso la popolazione è sempre in funzione del suo contributo a questa crescita. Tutto ciò è evidente in Cina, dove si è provato a silenziare le notizie riguardo il coronavirus e poi, dopo che Xi Jinping ha compreso che le misure contro il virus stavano danneggiando l’economia, il numero di nuovi casi si è rapidamente ridotto a zero. È la stessa spietata logica economica che ha portato altri paesi a decidere di aspettare e valutare, poiché misure preventive come restrizioni ai viaggi (rispetto a cui l’OMS si è schierato contro), screening agli aeroporti e spostamento dei giochi olimpici hanno un impatto negativo sul turismo. 

I media, così come molti filosofi, presentano discorsi ingenui quando si parla dell’”approccio autoritario” asiatico e del presunto approccio liberale/libertario/democratico dell’Occidente. La via autoritaria cinese (o asiatica) – spesso fraintesa come confuciana, sebbene il confucianesimo non sia assolutamente una filosofia autoritaria o coercitiva – è stata efficace nel controllo della popolazione, attraverso l’utilizzo delle già diffuse tecnologie di sorveglianza del consumatore (ricognizione facciale, analisi dati dei cellulari, ecc.), per mappare la diffusione del virus. Quando in Europa sono scoppiati i focolai, c’era ancora dibattito riguardo all’uso dei dati personali dei cittadini. Ma, se dobbiamo davvero scegliere fra “autoritarismo asiatico” e “governo liberale/libertario occidentale”, l’autoritarismo asiatico appare più accettabile di fronte a nuove catastrofi, dato che la via libertaria alla lotta di tali pandemie è essenzialmente eugenista, seguendo l’idea che la selezione “naturale” eliminerebbe rapidamente la popolazione più anziana. In ogni caso, tutte queste opposizioni culturali essenzialiste traggono in errore, poiché ignorano la spontaneità e solidarietà che emerge nelle comunità, e le varie considerazioni morali delle persone nei riguardi degli anziani e della famiglia; tuttavia questo tipo di ignoranza è necessaria per vane espressioni della propria superiorità. 

Verso quali altri lidi si può muovere la nostra civiltà? La grandezza di questa domanda per lo più travolge la nostra immaginazione, lasciandoci a sperare, come ultima spiaggia, di poter riafferrare una “vita normale”, qualsiasi cosa ciò significhi. Nel XX secolo, gli intellettuali ricercavano altre opzioni e configurazioni geopolitiche utili a sorpassare il concetto schmittiano di politico, come fece Derrida nel suo Politiche dell’amicizia, dove egli rispose a Schmitt decostruendo il concetto di amicizia. La decostruzione apre alla differenza ontologica fra amicizia e comunità, al fine di suggerire un’altra politica oltre la dicotomia amico-nemico, fondamentale alla teoria politica del secolo passato, ovvero l’ospitalità. “Incondizionata” e “incalcolabile” ospitalità, che potremmo chiamare amicizia, può essere concepita in geopolitica come ciò che scalza la sovranità; il filosofo decostruzionista Giapponese Kōjin Karatani sosteneva che la pace perpetua sognata da Kant sarebbe stata possibile solo quando la sovranità sarebbe stata elargita come un dono – nel senso di una maussiana economia del dono, in coda al globale impero capitalista14. Ad ogni modo, tale possibilità è condizionata dall’abolizione della sovranità o, in altre parole, degli stati-nazione. Perché questo accada, secondo Karatani, avremmo probabilmente bisogno di una Terza Guerra Mondiale seguita dalla creazione di una struttura governativa internazionale più forte delle Nazioni Unite. Infatti, la linea di condotta di Angela Merkel riguardo i rifugiati e il “una nazione, due sistemi” brillantemente pensato da Deng Xiaoping, si stanno dirigendo verso quell’ultimo fine evitando la guerra. Il sistema di Xiaoping ha inoltre il potenziale di diventare un modello più sofisticato e interessante del sistema federale. La refugee policy della Merkel è stata, comunque, bersaglio di attacchi serrati, mentre l’altro è sulla via del decadimento per colpa di nazionalisti di mentalità ristretta e schmittiani dogmatici. Una Terza Guerra Mondiale è la soluzione più veloce se nessun paese è volenteroso di proseguire con quelle proposte. 

Prima che il giorno giunga, e prima che una catastrofe ancora più seria ci porti sull’orlo dell’estinzione (di cui abbiamo già il sentimento), avremmo ancora bisogno di chiedere come un “organismico” sistema immunitario globale potrebbe apparire, al di là di sostenere semplicemente la necessità della coesistenza col coronavirus15. Che tipo di co-immunità o co-immunismo (neologismo proposto da Sloterdijk) è possibile, se vogliamo che la globalizzazione continui e continui in una maniera meno contradditoria? La strategia di Sloterdijk della co-immunità è interessante, ma politicamente ambivalente – probabilmente anche perché non è una tesi elaborata sufficientemente a fondo nei suoi lavori più importanti – oscillante fra una politica dei confini, cara al partito di estrema destra Alternative fuer Deutschland (AfD), e l’immunità contaminata di Roberto Esposito. Il problema, comunque, è che, se continuiamo a seguire la logica degli stati-nazione, non arriveremo mai ad una co-immunità. Non solo perché uno stato non è una cellula o un organismo (non importa quanto questa metafora sia attraente e pratica per gli studiosi), ma anche perché, più fondamentalmente, il concetto stesso può solo produrre un’immunità sulla base di amico-nemico, indipendentemente dal fatto che assuma la forma di organizzazioni internazionali o concili. Gli stati moderni, composti da tutti i loro soggetti, come il Leviatano, non avevano altri interessi se non la crescita economica e l’espansione militare, almeno prima dell’arrivo di una crisi umanitaria. Perseguitati da una imminente crisi economica, gli stati-nazione diventano la fonte (invece che il bersaglio) di fake news manipolatorie.  

§4. Solidarietà astratta e solidarietà concreta

Ritorniamo alla questione dei confini, e mettiamo in questione la natura di questa guerra che ora stiamo combattendo, che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres considera come la più grande sfida a cui l’UN debba far fronte dalla Seconda Guerra Mondiale. La guerra contro il virus è, prima di tutto, una guerra di informazione. Il nemico è invisibile. Esso può essere localizzato soltanto attraverso le informazioni sulle comunità e sulla mobilità degli individui. L’efficacia della guerra dipende dall’abilità di riunire ed analizzare informazioni e mobilitare risorse disponibili al fine di raggiungere il più alto grado di efficienza. Per i paesi che esercitano una forte censura del web è possibile contenere il virus esattamente come si contiene una keyword “sensibile” che circola sui social media. L’uso del termine “informazione” in contesti politici è stato spesso equiparato alla propaganda, sebbene dovremmo semplicemente evitare di vederla come una questione di mass media e giornalismo, o addirittura di libertà d’espressione. La guerra di informazione è la forma che il conflitto ha assunto nel XXI secolo. Non è un tipo di guerra specifico, ma guerra nel suo stato di permanenza. 

Nelle sue lezioni raccolte in Bisogna difendere la società, Michel Foucault capovolge l’aforisma di Carl von Clausewitz “la guerra è la continuazione della politica attraverso mezzi differenti” in “la politica è la continuazione della guerra attraverso mezzi differenti.”16. Mentre questo capovolgimento suggerisce che la guerra non ha più la forma che aveva in mente Clausewitz, Foucault non aveva ancora sviluppato un discorso sulla guerra di informazione. Più di vent’anni fa, un libro intitolato Wars without Limit (超限戰, tradotto ufficialmente in inglese come Unrestricted Warfare o Warfare beyond Bounds) è stato pubblicato in Cina da due ex-colonnelli dell’aeronautica. Questo libro è stato presto tradotto in francese, e si dice abbia influenzato il collettivo Tiqqun e, più tardi, l’Invisible Committee. I due ex-colonnelli – che conoscevano bene Clausewitz ma che non avevano letto Foucault – giunsero alla tesi che la forma tradizionale della guerra sarebbe lentamente svanita, per essere rimpiazzata da guerre immanenti nel mondo, largamente introdotte e rese possibili dalla tecnologia d’informazione. Questo libro potrebbe essere letto come un’analisi della strategia di guerra globale statunitense, ma anche, in maniera più essenziale, come una penetrante analisi relativa a come la guerra d’informazione ridefinisca la politica e la geopolitica. 

La Guerra contro il coronavirus è allo stesso tempo una guerra di disinformazione e fraintendimenti, il che caratterizza la politica nel tempo della post-verità. Il virus può anche essere un evento contingente che innesca la crisi presente, ma la guerra di per sé non è più una contingenza. L’Infowar apre inoltre altre due (in un certo senso farmacologiche) possibilità: a) una forma della guerra che non prenda più lo stato come sua unità di misura, ma che invece deterritorializzi costantemente lo stato attraverso armi invisibili e senza confini chiari; b) guerra civile, la quale prende la forma di infosfere in competizione. La guerra contro il coronavirus è la guerra contro i vettori del virus, ed è condotta attraverso l’uso di fake news, rumors, censura, false statistiche, disinformazione, ecc. Parallelamente agli Stati Uniti, che usano la tecnologia della Silicon Valley per espandere la propria infosfera e penetrare negli apparecchi di gran parte della popolazione mondiale, la Cina ha costruito uno delle più grandi e sofisticate infosfere al mondo, con firewall ben strutturati, che consistono sia in umani che in macchine, il che le ha permesso di contenere i danni del virus con una popolazione di 1.4 miliardi di persone. Questa infosfera è in continua espansione, grazie anche alle infrastrutture legate all’iniziativa cinese “una cintura, una strada”, insieme alla già ben consolidata rete di investimenti e infrastrutture in Africa che ha obbligato gli Stati Uniti a rispondere, nel nome della sicurezza e della proprietà intellettuale, bloccando l’espansione dell’infosfera di Huawei. Certamente, la guerra d’informazione non è portata avanti solamente dagli stati sovrani. All’interno della Cina stessa, differenti fazioni competono le une con le altre attraverso media ufficiali, media tradizionali come i giornali, e media indipendenti. Ad esempio, media tradizionali e media indipendenti hanno fatto fact-checking su figure di stato durante lo scoppio dell’epidemia, spingendo il governo a riparare ai propri errori e a distribuire più equipaggiamento medico agli ospedali di Wuhan. 

Il coronavirus rende esplicita l’immanenza della guerra di informazione attraverso la necessità degli stati-nazione di difendere i propri confini fisici mentre, tecnologicamente ed economicamente, essi si espandono oltre questi ultimi per stabilirne di nuovi. Le infosfere sono costruite da uomini e, nonostante si siano largamente espanse negli ultimi decenni, rimane indeterminabile il loro divenire futuro. Fintanto che l’immagine della co-immunità – come un possibile comunismo o mutuo soccorso fra nazioni – rimane l’immagine di una solidarietà astratta, vulnerabile al cinismo in maniera simile al caso dell’”umanità”. Gli ultimi decenni sono stati testimoni di certi discorsi filosofici che hanno tentato di nutrire un’idea di solidarietà astratta, il che può portare alla formazione di comunità-setta la cui immunità viene determinata attraverso accordi e disaccordi. La solidarietà astratta affascina proprio in quanto astratta; opposta alla concretezza, l’astrattezza non è fondata e non ha località; può essere trasportata ovunque e può abitare qualunque luogo. Questa solidarietà astratta, comunque, è un prodotto della globalizzazione, una metanarrativa (o addirittura una metafisica) per qualcosa che da tempo si confronta con la propria fine. 

La vera co-immunità non ha la forma di solidarietà astratta, ma piuttosto parte dalla sua forma concreta, la cui co-immunità dovrebbe emergere dalla prossima ondata di globalizzazione (se mai ce ne sarà una). Fin dal principio di questa pandemia, dove conta molto chi può rifornirmi di cibo dai supermercati se io non sono in grado di andarci, o chi mi può assicurare una mascherina se ho bisogno di visitare l’ospedale, ci sono stati innumerevoli atti di vera solidarietà. C’è stata solidarietà anche fra le comunità mediche che hanno condiviso informazioni le une con le altre per sviluppare un vaccino. Gilbert Simondon distingue fra astratto e concreto attraverso l’esempio dell’oggetto tecnico: questi oggetti tecnici astratti sono mobili e intercambiabili, come quelli impiegati dagli enciclopedisti del XVIII secolo che (ad oggi) ispirano ottimismo riguardo alla possibilità del progresso; gli oggetti concreti sono quelli invece che si basano (forse letteralmente) sia sul mondo umano che su quello naturale, agendo da mediatori fra i due. Una macchina cibernetica è più concreta di un orologio meccanico, che è più concreto di un utensile semplice. Siamo in grado, perciò, di concepire una solidarietà concreta che eluda l’impasse di una immunologia basata sugli stati-nazione e sulla solidarietà astratta? Possiamo considerare l’infosfera come un’opportunità che punti a tale immunologia?

Potremmo avere bisogno di allargare il concetto di infosfera in due modi. In prima istanza, la costruzione di infosfere può essere pensata come un tentativo di strutturare la tecno-diversità, di smantellare quella cultura mono-tecnologica da dentro e tentare una fuga da quel “cattivo infinito”. Questa diversificazione di tecnologie implica inoltre una diversificazione di stili di vita, forme di coesistenza, economie, ecc, dato che la tecnologia, fintanto che è cosmotecnica, incorpora relazioni differenti con l’inumano e con il cosmo17. Questa tecno-diversificazione non implica una struttura etica imposta alla tecnologia, dato che quella arriva sempre troppo tardi ed è spesso fatta in modo da essere violata. Senza cambiare le nostre tecnologie e i nostri comportamenti, preserveremo la biodiversità solamente come un caso eccezionale senza assicurarne la sostenibilità. Senza la tecno-diversità non possiamo mantenere la biodiversità. Il coronavirus non è la vendetta della natura, ma il risultato di una cultura mono-tecnologica dove la tecnica simultaneamente perde il proprio fondamento e desidera diventare il fondamento di ogni altra cosa. Il mono-tecnologismo in cui viviamo ignora la necessità della coesistenza, e continua a concepire la terra solamente come una riserva di energia. Con la competizione viziosa che sostiene, si continuerà solamente a produrre altre catastrofi e altri incidenti. Secondo questa visione, dopo l’esaurimento e la devastazione dell’astronave Terra, ci ritroveremmo a dover far affrontare lo stesso destino sull’astronave Marte. 

In seconda istanza, l’infosfera può essere considerata una forma di solidarietà concreta che si sviluppa oltre i propri confini, come una immunologia che non considera più come punto di partenza lo stato-nazione – con le organizzazioni internazionali che effettivamente non sono altro che burattini nelle mani delle potenze globali. Perché questa concreta solidarietà emerga, abbiamo bisogno di tecno-diversità che sia in grado di sviluppare tecnologie alternative come nuovi social network, strumenti di collaborazione, e infrastrutture di istituzioni digitali che formerebbero la base di ogni futura collaborazione globale. I media digitali hanno già una lunga storia, anche se poche forme sono arrivate ad essere influenti su scala globale, a parte quelle della Silicon Valley (e WeChat in Cina). Questo è causato da una eredità della tradizione filosofica – con la sua opposizione natura-tecnologia e cultura-tecnologia – che fallisce completamente nel tentativo di pensare la pluralità della tecnologia come realizzabile. La tecnofilia e la tecnofobia diventano sintomi di una cultura mono-tecnologica. Ci ritroviamo ad essere familiari con lo sviluppo, nelle ultime decadi, della cultura hacker, dei software gratuiti e delle comunità open-source, eppure ci si è concentrati sullo sviluppo di alternative a tecnologie egemoniche piuttosto che costruire modi alternativi di accesso, collaborazione e, più importante, di epistemologia.

L’incidente coronavirus, di conseguenza, accelera i processi di digitalizzazione e sussunzione ad opera della data economy, rivelatasi lo strumento più efficace per neutralizzare la diffusione della malattia, come abbiamo già visto nella recente decisione di usare i dati dei cellulari per tracciare i focolai in paesi che altrimenti fanno della privacy un idolo sacro. Dovremmo prenderci una pausa, e chiederci se questa accelerazione dei processi di digitalizzazione possa essere compresa come una opportunità, un kairos che accompagna la crisi globale corrente. Le richieste di una risposta globale hanno messo tutti sulla stessa barca, e l’obiettivo di recuperare una “vita normale” non si configura come un risultato adeguato. Lo scoppio della pandemia da coronavirus segna la prima volta in più di vent’anni di vita dell’internet in cui l’insegnamento online è stato erogato da tutti i dipartimenti delle università. Ci sono state molte ragioni per cui l’insegnamento digitale è stato ostracizzato fino ad ora, ma la maggior parte di esse sono ragioni minori e molte volte irrazionali (istituti dedicati alle culture digitali possono ancora affermare la loro presenza fisica, importante per il management delle risorse umane). L’insegnamento digitale non rimpiazzerà completamente la presenza fisica, ma aprirà l’accesso alla conoscenza e ci riporterà alla domanda riguardo l’istruzione, nel momento in cui a molte università sono stati negati i fondi. La sospensione della vita normale da parte del coronavirus ci permetterà di cambiare le nostre abitudini? Ad esempio, possiamo pensare ai prossimi mesi (o anni), quando molte delle università in giro per il mondo useranno seriamente l’insegnamento online, come un’opportunità di creare istituzioni digitali serie, in una scala mai vista prima? Una immunologia globale richiede questo tipo di riconfigurazioni radicali. 

La citazione di apertura di questo saggio è presa dal testo incompleto di Nietzsche La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, scritto attorno al 1873. Invece che alludere alla propria stessa esclusione dalla disciplina filosofica, Nietzsche identificò riforme culturali proposte da filosofi della Grecia antica che vollero tentare di riconciliare scienza e mito, razionalità e passione. Non ci troviamo più in un’epoca tragica, ma in un tempo di catastrofi dove né il pensiero tragico né quello taoista, da soli, potrebbero essere in grado di pensare ad una via di fuga. Testimoni della malattia della cultura globale, abbiamo un disperato bisogno di riforme guidate da un nuovo pensiero e una nuova impalcatura che ci consenta di slegarci da ciò che la filosofia ha imposto ed ignorato. Il coronavirus distruggerà molte istituzioni che erano già minacciate dalle tecnologie digitali. Porterà anche ad un incremento della sorveglianza e di altre forme di immunizzazione contro i virus, così come contro il terrorismo ed altre minacce alla sicurezza nazionale. Questo si configura inoltre come un momento in cui abbiamo bisogno di più solide e concrete solidarietà digitali. Quest’ultima non è, però, una richiesta di usare di più Facebook, Twitter o WeChat, bensì di uscire dalla competizione viziosa della cultura mono-tecnologica, di produrre una tecno-diversità attraverso le tecnologie alternative e le loro corrispondenti forme di vita e modi d’abitare il pianeta e il cosmo. Nel nostro mondo post-metafisico, non abbiamo bisogno di pandemie metafisiche. Non abbiamo bisogno neanche di una ontologia virus-oriented. Ciò di cui realmente necessitiamo è la solidarietà concreta, che permetta le differenze e le divergenze. Prima della discesa del crepuscolo.

Vorrei ringraziare Brian Kuan Wood e Pieter Lemmens per i loro commenti e suggerimenti editoriali.

~ Yuk Hui attualmente insegna alla School of Creative Media, City University of Hong Kong. Il suo ultimo libro è Recursivity and Contingency (2019).

  1. Questo articolo appare nella sua versione originale su e-flux, disponibile qui. Ringraziamo l’autore per averci gentilmente consentito la possibilità di tradurlo e ripubblicarlo su Chaosmotics. Si ringrazia inoltre Noologizing per la traduzione, che, grazie al contributo degli editori Filippo Scafi e Stefano Moioli, ha reso possibile questa pubblicazione.
  2. La crise de l’esprit. Questo testo compare in La crisi del pensiero e altri saggi quasi politici, trad. Stefano e Nicole Agosti, Bologna: Il Mulino (“Intersezioni” n. 138), 1994.
  3. Valery, La crisi del pensiero e altri saggi quasi politici.
  4. “Tragist” [che noi traduciamo come “tragista”] è un neologismo che utilizzo nel mio nuovo libro in uscita Art and Cosmotechnics (University of Minnesota Press, 2020).
  5. Yuk Hui, What Begins After the End of the Enlightenment?, e-flux journal no. 96 (Gennaio 2019).
  6. Sul carattere autoimmune degli attacchi dell’11 settembre, cfr. Giovanna Borradori, Philosophy in a Time of Terror: Dialogues with Jürgen Habermas and Jacques Derrida (University of Chicago Press, 2004).
  7. “Wenn die Globalisierung zur tödlichen Gefahr wird,” Der Spiegel, 31 gennaio, 2020.
  8. Peter Sloterdijk, “Es gibt keine moralische Pflicht zur Selbstzerstörung,” Cicero Magazin für politische Kultur, January 28, 2016.
  9. Cfr. Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita (Einaudi, 2002).
  10. Cfr Alfred I. Tauber, Immunity: The Evolution of an Idea (Oxford University Press, 2017).
  11.  Carl Schmitt, “Il concetto di politico”, in Le categorie del ‘politico’ (Il mulino, 1972), 139.
  12. Carl Schmitt, “Il concetto di politico”, 141.
  13. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina (Adelphi, 2018).
  14. Cfr Kōjin Karatani, The Structure of World History: From Modes of Production to Modes of Exchange, trad. Michael K. Bourdaghs (Duke University Press, 2014).
  15. Dovremmo anche chiederci se la metafora biologica sia appropriata, nonostante la sua diffusa accettazione. Contesto ciò in Recursivity and Contingency (Rowman and Littlefield International, 2019) analizzando la storia dell’organicismo, la sua posizione nella storia dell’epistemologia, e la sua relazione con la tecnologia moderna, mettendo in discussione la sua validità in quanto metafora politica—specialmente in relazione alla politica ambientale.
  16. Michel Foucault, “Society Must be Defended”: Lectures at the Collège de France 1975–1976, trad. David Macey (Picador, 2003), 15
  17. Sviluppo questa diversificazione delle tecnologie come ‘cosmotecniche multiple’ in The Question Concerning Technology in China: An Essay in Cosmotechnics (Urbanomic, 2016).
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