«È probabile che stiate leggendo queste parole su un dispositivo mobile. È molto probabile che passiate molto tempo su quello stesso dispositivo ogni giorno. Se è così, non siete i soli».1 Quando lessi l’incipit di Digital Tarkovsky era il 2018. L’app che stavo utilizzando, per quanto rudimentale, era stata progettata per restituire la sensazione della carta: texture fibrosa, margini leggermente irregolari, un tenue fruscio nel voltare pagina. Mi sentii a tratti colpevole: quella colpa meschina che si prova nell’essere scoperti, nel riconoscere alcuni dei propri tratti caratteristici in una descrizione impersonale presente in un’indagine statistica. Stavo leggendo quelle parole su un dispositivo mobile e su quello stesso dispositivo passavo molto del mio tempo. Sapere di essere solo o meno, in quel frangente, non mi era in alcun modo di conforto. Quando, cinque anni più tardi, ho ripreso in mano il libro di Metahaven, leggere le medesime parole non ha rinnovato il senso di colpa: che si legga da un dispositivo mobile, che si passino ore e ore del proprio tempo davanti al suo schermo, non è più qualcosa di probabile, ma una pratica condivisa, talvolta taciuta, non di rado dissimulata. Per inciso, questa prassi non è illuminante, né tantomeno rivelatoria di alcunché riguardo alla nostra persona: è semplicemente un dato di fatto, un accadimento, un evento neutro che non è, nelle intenzioni di chi scrive, e non deve essere, nelle impressioni di chi legge, connotato in alcun modo. L’approccio più banale, o semplicemente meno stimolante, che si può avere nei riguardi del rapporto tra soggetto-dispositivo-tempo evocato da questo breve incipit, è quello che si focalizza sul primo termine della relazione. A partire dai primi anni Duemila il mondo dell’audio-visivo – specialmente cinematografico, seriale e televisivo – ha proposto sempre più prodotti basati su narrazioni stanche in cui un soggetto, sprofondando dolcemente nei miasmi di un mondo iper-tecnologizzato, disperde la propria identità tra 0 e 1 fluttuanti, smarrendosi infine nella cieca ricerca di un reale definitivo. Ma siccome qui non crediamo poi troppo nel concetto di identità – e anche su cosa sia il reale nutriamo alcune perplessità – possiamo provare a fare un passo un po’ più in là e rivolgerci al terzo termine in questione: il tempo.
Negli Stati uniti, durante il corso del 2018, un cittadino adulto ha speso in media due ore e cinquantuno minuti sul proprio smartphone. In Cina, nel medesimo anno, il tempo medio giornaliero trascorso su un dispositivo mobile ha iniziato a superare quello speso guardando la televisione, salendo a due ore e trentanove minuti. Stalker, di Tarkovskij, viene presentato al Festival cinematografico Internazionale di Mosca nell’agosto del 1979: la sua durata è di due ore e quarantuno minuti – dieci minuti in meno rispetto al tempo-schermo americano, due minuti in più rispetto a quello cinese. Ogni giorno, senza badarci poi troppo, un patchwork digitale che si fonde con la realtà ci intrattiene davanti allo schermo per una totalità di tempo pari (doppia nel 2022) a quella di cui si compone un lento film russo girato sul finire degli anni ‘70. Eppure le due esperienze percettive appaiono profondamente differenti: se da una parte il tempo sembra nascondersi, assorbito e celato dalla sovrapposizione di ritmi e stimoli, dall’altra esso sembra in qualche modo esibirsi. Tarkovskij, forse più di ogni altro, è il regista che ha integrato nella propria ricerca artistica una rimodulazione personale del concetto di tempo. Nelle opere di Tarkovskij, il tempo si costituisce come un personaggio in scena, un qualcosa di immediatamente percepibile e persistente: davanti alle duecento inquadrature di Lo specchio2, davanti alla saturazione di Nostalghia3, è possibile esperire in maniera tangibile il trascorrere del tempo e rilevarne la silenziosa fisicità. È Tarkovskij stesso a descrivere, in Scolpire il tempo, la propria concezione della dimensione temporale:
Il tempo costituisce la condizione dell’esistenza del nostro “io”, la nostra atmosfera vitale (…). [Esso] è indispensabile all’uomo perché incarnandosi, egli possa realizzarsi come persona. Non alludo al tempo lineare, quello che determina la possibilità di riuscire a fare qualche cosa, a compiere qualche atto. L’atto è un risultato, mentre io parlo della causa che rende fecondo l’uomo in senso morale. La storia non è ancora il Tempo. E neppure l’evoluzione. Esse sono una successione. Il Tempo è uno stato. È la fiamma nella quale vive la salamandra dell’anima dell’uomo. Il tempo e la memoria sono fusi l’uno nell’altra, sono le due facce di una stessa medaglia.4
Davanti a un film di Tarkovskij si fa esperienza del tempo in maniera singolare: esso si presenta come un flusso viscoso che avvolge ogni elemento; un oggetto solido perpetuamente in scena che plasma la materialità degli eventi. Ciò che viene costantemente sperimentato è il fatto che il tempo non sia addomesticabile, che le cose esistano nel tempo e che, pertanto, lo richiedano. Ma qual è il tipo di temporalità a essere qui in gioco? I nostri schermi – quelli dei dispositivi mobili – sono stati, in maniera progressiva dalla loro comparsa, associati a intervalli di attenzione sempre più brevi; in tal modo hanno rideterminato – o contribuito a rideterminare – il modo in cui trascorriamo il nostro tempo, confinando le attività digitalmente improduttive in spazi dimenticati della nostra vita. Bergson, in L’evoluzione creatrice, nell’analizzare la natura del tempo, descrive una sorta di incomprensione di fondo. Si è soliti – dice – concepire questo concetto come una successione misurabile di istanti concatenati, in una visione in qualche modo spazializzata e cronologica. Parallelamente – prosegue – una struttura temporale così intesa risulterebbe inefficace nel momento in cui, ad esempio, si volesse ricavare il movimento dal singolo fotogramma di una pellicola cinematografica e non dal suo fluire unitario. Per Bergson, allo stesso modo, nel tempo non si danno singoli istanti isolabili, ma un fluire continuo e indivisibile che viene determinato da una coscienza. In queste pagine de L’evoluzione creatrice la coscienza appare come un luogo in cui gli stati psichici si presentano in maniera sovrapposta e a-gerarchica. A partire da queste premesse, il filosofo francese distingue differenti temporalità: al tempo della scienza, misurabile e divisibile, si affianca il tempo reale, quello che ciascuno di noi vive attraverso la propria coscienza:
Se voglio prepararmi un bicchiere d’acqua zuccherata, per quanto mi dia da fare, devo sempre aspettare che lo zucchero si sciolga. Questo piccolo fatto è ricco di insegnamenti. Infatti il tempo che devo aspettare non è più quel tempo matematico che potrebbe essere applicato a tutta la storia del mondo materiale, anche se questa si fosse dispiegata d’un tratto nello spazio. Esso coincide con la mia impazienza, cioè con una certa porzione della mia propria durata, che non possiamo allungare o accorciare a piacere. Non si tratta più di un pensato, ma di un vissuto. Non è più una relazione, è l’assoluto. E questo non vuol forse dire che il bicchiere d’acqua, lo zucchero, e il processo di scioglimento dello zucchero nell’acqua sono senza dubbio delle astrazioni, e che il tutto in cui essi sono stati ritagliati dai miei sensi e dal mio intelletto forse procede come una coscienza?.5
In che modo le osservazioni sul tempo di Bergson si relazionano alla rimodulazione di Tarkovskij e all’accelerazione data dai dispositivi mobili? La compenetrazione sempre più stretta tra oggetto tecnologico e soggetto umano non ha modificato l’identità del secondo termine della relazione, ma il senso che quest’ultimo ha di sé attraverso il tempo – e dunque il tempo stesso: «I messaggi, le notifiche push e le richieste dei social media diventano una nuova “misura del nostro tempo”. La nostra dipendenza dai servizi della piattaforma del dispositivo mobile ci incastra in intervalli di tempo che corrono tra la nostra voglia di aggiornamenti, i periodi di latenza più o meno lunghi in cui essi non avvengono, i momenti di di aggiornamento vero e proprio e la velocità di tutti gli altri eventi della nostra vita e del nostro ambiente»6: time is out of joint, direbbe qualcuno. Eshter Weltevrede, Anne Helmond e Carolin Gerlitz, in uno studio del 2014, mettono in luce come l’arrivo delle piattaforme digitali abbia implicato la segmentazione del tempo in sotto-temporalità autonome capaci di costituire un proprio adesso in costante movimento: la creazione del tempo reale non si svolge più sotto forma di un adesso fermo ed eterno, ma permette l’emersione di nuove entità capaci di determinare temporalità topiche e specifiche. È attraverso questa dinamica che si sviluppano, in concomitanza, temporalità differenti e coesistenti, capaci di orientare e integrare in sé quello che viene definito il tempo reale.
Le principali rappresentazioni del tempo in seno alla tradizione occidentale non lasciano spazio all’emergere di temporalità multiple. Le due grandi teorie che hanno rivestito il ruolo di faro possono essere rappresentate attraverso due differenti forme geometriche: il cerchio, di origine prevalentemente greca, e la linea, tipicamente cristiana. Da una parte la sfericità platonica e la circolarità aristotelica, dall’altra Cristo come «punto che stabilisce la doppia direzione del tempo storico, il passato come prefigurazione ed il futuro come giudizio universale»7 Ma, come riporta Carlo Rovelli: «[Vi è] un tempo diverso per ogni punto dello spazio. Non c’è un solo tempo. Ce ne sono tantissimi. Il tempo indicato da un particolare orologio misurato da un particolare fenomeno, in fisica si chiama tempo proprio. Ogni orologio ha il suo tempo proprio. Ogni fenomeno che accade ha il suo tempo proprio».8 Potremmo dire, parafrasando Timothy Morton, che lo spazio-tempo einsteiniano è il modo in cui la materia deforma lo spazio dal suo interno trasformando l’universo in qualcosa di simile a un torrente costellato da innumerevoli vortici di energia. È in questo modo che lo spazio-tempo si presenta non come un contenitore vuoto in cui gli oggetti vengono posti, ma come un campo di forze generato a partire dagli oggetti stessi. Gli oggetti non fluttuano in uno spazio vuoto infinito: ogni entità persiste in un tempo che le appartiene.9
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Mentre il sole incorona con un’aureola lattiginosa i profili degli edifici in lontananza, un sacchetto di plastica volteggia sospinto dal vento. Un giovane dal passo affaccendato, senza distogliere lo sguardo dallo schermo del proprio smartphone, attraversa la strada incrociando un’auto; all’interno del veicolo una ragazza fotografa un particolare che ha attirato la sua attenzione. Sopravanzata l’auto, una folla anonima, anch’essa senza volgere lo sguardo altrove, disegna geometrie intricate lungo il marciapiede. La cliente di un ristorante fotografa il proprio cocktail, mentre il cameriere inquadra il cane seduto con lei; una coppia, pochi tavoli più in là, immortala il proprio pranzo, così come l’uomo che, al tavolo affianco, ha appena ricevuto il proprio ordine. Il sacchetto di plastica continua il suo volo cieco. Un giovane fa parkour riprendendosi con un selfie-stick. Poco più in là, nei pressi di un set cinematografico, la cabina di direzione si apre: al suo interno il regista mostra alla camera l’immagine di un cane. Schermo nello schermo, un attore e la sua make-up artist scrollano un’app fino al momento del ciak. Ciak – il green-screen che faceva da sfondo abbandona la sua forma fluorescente per trasformarsi in un gruppo di edifici fatiscenti; una pioggia di detriti in CGI guida i movimenti del protagonista attraverso una città in rovina. La medesima scena viene riprodotta da un televisore nella confusione di un salotto: una donna, seduta precariamente sul divano, cinge con una mano una tazza di tè, mentre con l’altra utilizza il proprio smartphone; davanti a lei, due cani si litigano un giocattolo, mentre due bambini si contendono un portatile sul cui schermo capeggia il buffering dello stesso film. Una donna, più anziana, si muove per la stanza addentando un trancio di pizza, anch’ella alle prese con il proprio smartphone. In cucina, un uomo prova a guardare un video ponendo il proprio dispositivo in equilibrio su un improvvisato trabiccolo in alluminio. Suona il campanello, l’uomo apre, entrano due giovani ragazze: nessuno distoglie gli occhi dal proprio smartphone, mentre un tripudio di notifiche, suoni e allarmi accompagna l’uscita dell’uomo in strada, dove il nostro schermo viene infestato dal proliferare incontrollato delle schermate di notifica di ogni passante. Schermo nero. Una luce, dapprima timida, inizia a roteare scintillando. Una voce ci suggerisce «Non è meraviglioso?».
Se ultimamente siete stati in una sala cinematografica, soprattutto se all’interno di un multisala, avrete con tutta probabilità fatto esperienza di come narrazioni articolate di questo genere siano volte a veicolare un semplicissimo messaggio: spegnere il telefono. Il dualismo tra piccolo e grande schermo, lungi dall’essere una questione esclusivamente estetico-tecnologica, rappresenta l’agone tra due temporalità distinte e sovrapposte: nonostante «il cinema [abbia] già vinto ostentatamente la gara per lo schermo più grande», si ritiene comunque necessario stabilire una regolamentazione volta a impedire la distrazione causata da altri dispositivi di durata. Al di là delle motivazioni pragmatiche, a un livello più profondo, sembra che il cinema necessiti di ri-appropriarsi dello spazio, soprattutto nel momento in cui ha perso «il monopolio sul tempo interno dominante di cui lo schermo è il tramite»10. Deleuze, nelle prime pagine dei suoi scritti sul cinema, individua proprio nelle tesi sul movimento di Bergson gli strumenti per elaborare una propria teoria dell’immagine. Nel pensiero di Deleuze, il cinema non dà un’immagine del tempo in senso stretto; ciò che il cinema restituisce è un’immagine-tempo a cui il tempo appartiene immediatamente. Come riporta Menil in L’ecran du temps:
La specificità dell’immagine-tempo è che essa contiene il tempo in modo tale da emergere da sola, senza l’aiuto di eventi avventizi, di cui dovrebbe occuparsi come postilla e salvaguardia allo stesso tempo. (…) [È] il tempo stesso [che] cambia corso e ritmo, [che] sembra divergere da se stesso, e [che] non essendo riducibile ai segni prodotti dai dati oggettivi e omogenei che strutturano effettivamente la processione delle immagini e la loro percezione, occupa più di un piano e si offre su più dimensioni, andando in tutte le direzioni e non lasciandone nessuna intatta.11
È un tempo che, fattosi immagine – per abbandonare la propria invisibilità – necessita di divenire aberrante. Laddove l’immagine-movimento fornisce un’immagine indiretta del tempo costruita dal montaggio, l’immagine-tempo non è data dall’interruzione del movimento, ma dal trasformarsi di quello stesso movimento fluido e omogeneo in un falso movimento aberrante. È questo tipo di movimento a svelare direttamente il tempo: non il tempo misurabile – quello della scienza, à la Bergson -, ma il tempo come totalità e apertura infinita. Se, con Metahaven, accettiamo di considerare l’universo digitale messo in scena dai dispositivi e dai micro-dispositivi come una «forma non dichiarata di cinema»12, cosa comporta vivere immersi in una molteplicità di immagini-tempo che simultaneamente modellano la dimensione temporale? Sebbene non ci sia una storia, ma «una sequenza di materiale visivo da cui siamo portati a costruire un’unità temporale simile a una storia» 13, maggiore è il numero di persone che si seguono, maggiore è il numero di storie che compongono il nostro mosaico filmico. Questa linea temporale – la time-line di cui le soggettività si configurano come nodi attivo-passivi – viene consumata dall’utente come un flusso omogeneo costituito dalle presentazioni di eventi a cui, almeno nella maggior parte dei casi, era fisicamente assente. La visione di – e quindi la partecipazione a – questo flusso di immagini è, come sottolineato da Metahaven, qualcosa di completamente differente dalla visione di un notiziario televisivo, luogo in cui le immagini e le parole attraversano lo schermo in un’interazione unidirezionale fondata sull’assenza di un legame sociale diretto. Ciò che appare inedito all’interno di questa dinamica è un sotterraneo e tacito invito alla partecipazione: il film messo in scena dal patchwork virtuale, l’immagine che lo costituisce, ci chiama a prenderne parte.
Nel 2018 Instagram è stato definito il peggiore social per la salute mentale. Lo sviluppo di temporalità coesistenti e inconciliabili, i ritmi frenetici dati dalla sovrabbondanza di stimoli, l’endless scrolling, il feed personalizzato – o ancora: «l’autoplay, l’inversione cronologica della timeline, le notifiche push» – sono elementi che compromettono il costituirsi di una dimensione emotiva stabile: «la visione dell’evento attraverso l’app, da lontano, può mettere in evidenza, per l’utente, la propria distanza fisica dalla scena, e quindi che la sua vita può essere sentita come priva di alcune delle cose che le vite raffigurate degli altri possiedono in modo così ostentato – divertimento, felicità, bellezza, intensità».14 Le modalità in cui le piattaforme gerarchizzano i propri contenuti sembrano, al contempo, favorire in maniera sistematica l’aberrazione rispetto al generico e al quotidiano, forzando sfumature di intensità nel luogo di una «noiosa normalità». Piattaforme come Instagram, in questo senso, agiscono come filtri, tracciando, attraverso un doppio processo di segmentazione e stratificazione, il regno del visibile. Ciò che si costituisce è una politica del visibile senza fondamenta, per sua natura transitoria; un fare e disfare continuo guidato da algoritmi male addestrati. Il contenuto e la trama di questo di tipo di cinema, per Metahaven, si configurano come
L’auto-rappresentazione e l’auto-produzione di un tessuto sociale sotto la pressione del design della piattaforma. Possiamo, e forse dovremmo, immaginare piattaforme diverse e cooperative, che riflettano le condizioni che gli utenti desiderano per se stessi. Ma per il momento, il cinema per l’interfaccia è continuamente co-prodotto e condizionato dalle più ampie strutture capitalistiche in cui e attraverso cui sussiste. Questo non si traduce in arte pura, ma in contraddizioni massicciamente scalabili, con un coinvolgimento degli utenti sempre più ininterrotto. 15
Lo iato, lo spazio residuale, tra la velocità della piattaforma e quella dell’esperienza vissuta «sotto la suggestiva onnipresenza di una forza computazionale onnicomprensiva» risulta essere essenzialmente uno spazio di propaganda. La moltiplicazione dei contenuti mediatici altamente personalizzati agisce instillando una forma di distorsione ideologica, che risulta infine implicita alla condizione stessa di utente. Il soggetto, perduta la certezza del proprio tempo, scisso tra la familiarità di un feed auto-imposto e l’estraneità di vite lontane, si trova di fronte a una forma di perturbante digitale: l’estraneo familiarizzato mediante un segui e il familiare estraneizzato per diluizione divengono parte di un unico flusso mostruoso, determinato dalle temporalità accelerate che ne caratterizzano la comparsa.
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Se, a partire da Bergson, si apre alla possibilità di molteplici temporalità reali coesistenti, e se, con Metahaven, si afferma che a dispositivi differenti corrispondono temporalità differenti, allora l’indagine interna al rapporto soggetto-dispositivo-tempo, ci conduce dal tempo verso il dispositivo. Secondo Tarkovskij il cinema, l’arte in generale, «è un metalinguaggio per mezzo del quale gli uomini tentano di entrare in contatto l’uno con l’altro: di comunicare informazioni su se stessi e di far propria l’esperienza altrui».16. Continuando a giocare secondo le regole di Metahaven – considerare il patchwork digitale come una forma non dichiarata di cinema – si potrebbe restringere il campo di ricerca al rapporto tra dispositivo e auto-narrazione.
Apro TikTok. Complice il buio della stanza, il bagliore candido dello schermo proietta la mia ombra sulla parete a cui do le spalle, lasciandomi momentaneamente attonito. In pochi attimi vengo trascinato in un vortice di narrazioni: dapprima mi sembrano slegate, semplicemente giustapposte, assemblate oziosamente da una mano esausta. Via via che scorrono inizio a percepirne la dimensione corale, tessere di un mosaico sconosciuto. Intravedo un disegno ma non riesco a figurarmelo nella sua interezza. Mi chiedo cosa accomuni le immagini che compongono la strana danza in scena davanti ai miei occhi: sono forme, colori e suoni differenti, eppure connessi da una misteriosa coerenza interna. Apro Instagram. Questa volta i miei occhi, già abituati alla sovra-saturazione di ogni colore, non rilevano variazioni sensibili. Nonostante le immagini siano questa volta statiche, la stessa sensazione di coesione interna sopravvive da una piattaforma all’altra. Mi accorgo che forse non riuscivo a cogliere l’affresco nella sua interezza perché l’impasto di sabbia di fiume, polvere di marmo, calce e acqua non si limitava a ricoprire le sole pareti interne: l’atrio all’ingresso, il portone centrale, l’androne, il cortile antistante, e poi le strade, gli altri palazzi, la città tutta sono ricoperti dagli stessi colori. Il flusso digitale formato dalle immagini sembra agire per presentificazione: riportare davanti a una coscienza qualcosa di assente. Ipotizzo allora che a connettere questi elementi sia l’atto del raccontare: ma raccontare cosa? Il vortice binario generato dal flusso delle immagini sradica ogni cosa trascinandola in sé; la molteplicità potenzialmente infinita dei semplici accadimenti che animano il mondo viene riconfigurata sotto l’egemonia del narratore. Mi rispondo allora che l’unico elemento a ricorrere, sia esso posto dietro o davanti alla fotocamera, non è altro che un sé. Cosa significa raccontare un sé, allora? L’atto della narrazione presuppone un nucleo originario che viene successivamente rappresentato? O è il narrarsi che, simultaneamente, costituisce quel nucleo? Mi dico che ad accomunare le immagini che compongono il caleidoscopio in cui ora vortica la mia stanza, non è altro che il frammento di un processo di costituzione identitaria sempre in atto; che raccontarsi è un gioco di specchi – osservare il mondo riflesso in altri occhi, volti verso di noi.
Per quanto sia complesso individuare con esattezza l’origine di questa forma di narrazione, il termine autofiction viene introdotto da Serge Doubrovsky nel 1977 in riferimento al suo romanzo Fils. Prendendo le distanze dalla nozione di autobiografia, per Doubrovsky l’autofiction assume i caratteri di una «finzione, di avvenimenti e fatti strettamente reali […] Incontri, fili di parole, allitterazioni, assonanze, dissonanze, scritture poste prima o dopo la letteratura, concreta, come si dice della musica»17. Comunemente, con autofiction si fa riferimento a una forma di scrittura derivante dal romanzo autobiografico settecentesco, che, durante il Novecento, si è fatta portavoce dell’impossibilità di raccontare il soggetto nella sua unitarietà. L’opera auto-finzionale viene definita anzitutto da un punto di vista referenziale, riguardo al suo contenuto e al rapporto che esso intrattiene con la realtà, interpretato dal punto di vista dell’autore. Il raccontarsi che soggiace a fondamento dell’autofiction è costituito dall’intreccio di realtà e irrealtà, di «autenticità e mistificazione, sincerità e dimenticanza»18; è attraverso lo specchio del sé, filtrato dal prisma della finzione, che il soggetto ricostituisce se stesso a partire dal proprio narrarsi. Come riporta Doubrovsky, la novità che caratterizza essenzialmente l’autofiction è l’alterazione radicale della solitudine romantica: il protagonista della narrazione non si forma attraverso un autoritratto, ma mediante un «etero-ritratto, che gli ritorna dal luogo dell’Altro»19. Dacché insidiato tra le fondamenta della rappresentazione giace il germe della falsificazione, nel raccontarsi, il soggetto deve perpetuamente uscire fuori di sé per attualizzarsi attraverso l’altro; in questo modo, il dispositivo – sia esso cinematografico, letterario, discorsivo o estetico – si configura come il luogo della falsificazione.
Prendiamo brevemente in prestito due termini dal dibattito neo-materialista e mettiamoli in relazione al nostro discorso: rappresentazionismo e performatività. Con il primo intendiamo una teoria dell’identità in cui si ammette l’esistenza di un nucleo originario che, attraverso l’auto-narrazione, ha modo di essere comunicato20, mentre con il secondo indichiamo il costituirsi dell’apparato identitario attraverso l’atto della sua enunciazione21; da una parte il narrare qualcosa, dall’altro il farsi di quel qualcosa immanente all’atto della narrazione. Laddove il rappresentazionismo permetterebbe di ricondurre il raccontarsi alla forma dell’autobiografia, la prospettiva performativa configura l’auto-narrazione come una forma avanzata di auto-fiction: se il dispositivo è costitutivamente il luogo dell’enunciazione del sé, allora l’autofiction assume il carattere di «una narrazione in cui, come in un’autobiografia, autore, narratore e protagonista coincidono; ma in cui, come in un romanzo, il protagonista compie atti che l’autore non ha mai compiuto, e ai fatti riconosciuti come empiricamente accaduti si mescolano eventi riconoscibili come non accaduti».22Il processo di narrazione del sé si forma in questo senso come un processo di costruzione del sé: il medium attraverso cui convergono e vengono filtrati i flussi discorsivi di soggettivazione entra a far parte di un più esteso processo di soggettivazione che coinvolge tempo, soggetto e dispositivo. Se, come visto, dispositivi specifici generano temporalità specifiche, e, al contempo, alle diverse temporalità corrispondono differenti modi di raccontarsi, allora ogni dispositivo, attraverso il proprio ritmo, costituirà un diverso genere di soggetto: un soggetto con il baricentro proteso verso l’interazione, periferico e decentrato.23 Inizialmente ci siamo detti che all’interno del rapporto triadico «soggetto-dispostivo-tempo» ci saremmo soffermati solo sull’ultimo dei tre termini coinvolti. Siamo, invece, finiti a parlare del soggetto. Forse, però, tracciare con vigore delle linee di confine laddove queste sono solo tratteggiate – sfumate, intersecate, sovrapposte – è un atto di violenza teorica che ci sembra appartenere solo a chi conosce le cose fin troppo bene, o a chi in fin dei conti non le conosce affatto. Il nostro punto d’osservazione è interno, ciò che vediamo parziale, il tempo che viviamo schizofrenico: dove finisca un termine e inizi l’altro è una questione puramente discorsiva e che nulla ha che fare con il nostro vissuto. Siamo entità immerse nel tempo, e come tali dobbiamo raccontarci.
- Metahaven, Digital Tarkovsky, Strelka, 2018.
- «Nello Specchio veniva articolato il tempo tesso che scorre nell’inquadratura. In questo film ci sono in tutto circa duecento inquadrature. Sono molto poche se si pensa che in un film di questo metraggio di solito ce ne sono da cinquecento a mille. Il piccolo numero di inquadrature è determinato dalla loro lunghezza. La saldatura delle inquadrature tra loro ne organizza la struttura, ma non crea, come si è soliti credere, il ritmo del film. Il ritmo del film nasce invece dal carattere del tempo che scorre dentro l’inquadratura. […] il ritmo del film viene determinato non dalla lunghezza dei brani montati, bensì dal grado di tensione del tempo che scorre all’interno di essi». (A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Istituto nazionale Tarkovskij, 2015)
- «Avrei mai potuto supporre girando Nostalghia in Italia che lo stato di malinconia soffocante e senza sbocchi che riempie tutto lo spazio dello schermo in questo film sarebbe diventata la sorte della mia vita successiva?». (A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Istituto nazionale Tarkovskij, 2015)
- A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Istituto nazionale Tarkovskij, 2015.
- H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Rizzoli, 2012.
- Metahaven, Digital Tarkovsky, Strelka, 2018.
- https://operavivamagazine.org/temporalita-plurali/
- C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017.
- T. Morton, Iperoggetti, Nero, 2018.
- Metahaven, Digital Tarkovsky, Strelka, 2018.
- [11] A. Menil, L’ecran du temps, Presses Universitaires de Lyon, 1991.
- «Poiché abbiamo deciso di esaminare i dispositivi mobili e la loro temporalità come una forma non dichiarata di cinema, la nozione di ritmo presenta alcuni importanti punti di partenza per pensare alla temporalità delle piattaforme. Le piattaforme dirigono archi narrativi e cliffhanger, modellandosi intorno alle esigenze e all’attenzione dell’utente. […] Così, mentre il ritmo degli aggiornamenti e delle richieste su varie piattaforme e dispositivi può essere interpretato come una forma non dichiarata di montaggio cinematografico, il fatto che viviamo sempre di più, ma non ancora tutte le nostre vite su Facebook, significa che rimane una differenza o un divario raramente considerato tra la vita e la piattaforma». (Metahaven, Digital Tarkovsky, Strelka, 2018)
- Ibid.
- Ibid.
- Ibid.
- Il regista russo esclude la possibilità di un’auto-espressione slegata da un’ottica di scambio: «vale forse la pena di affaticarsi per udire il proprio eco»? – domanda. (A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Istituto nazionale Tarkovskij, 2015) Il medium cinematografico acquisisce in questo modo una finalità prettamente auto-narrativa: esso diviene uno strumento per raccontarsi, per portare avanti una narrazione del sé finalizzata alla comprensione reciproca.
- S. Doubrovsky, Fils, Gallimard, 2001.
- R. Fontanel, De l’autobiographie à l’autofiction cinématographiques: l’art du double je(u), Textimage, 2019.
- Ibid.
- Sia le teorie sociali liberali che le teorie della conoscenza scientifica devono molto all’idea secondo cui il mondo è fatto di individui- che si presume preesistano alle leggi o alla loro scoperta – che aspettano solo di essere rappresentati e che invitano alla rappresentazione. L’idea che gli esseri viventi esistano come individui con attributi intrinseci anteriori alla rappresentazione costituisce un presupposto metafisico che sta alla base dell’adesione al rappresentazionismo in campo politico, linguistico ed epistemologico […] Il rappresentazionismo è la convinzione secondo cui esiste una distinzione ontologica tra le rappresentazioni e ciò che essere dichiarano di rappresentare, in particolare, l’oggetto della rappresentazione è ritenuto indipendente da qualsiasi pratica rappresentativa. (K. Barad, Performatività della natura, ETS, 2017)
- «Una scena ben congegnata e rappresentata induce il pubblico ad attribuire un sé a un personaggio rappresentato, ma ciò che viene attribuito – il sé – è il prodotto di una scena che viene rappresentata e non una sua causa». (E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, 1959)
- [22] R. Donnarumma, Ipermodernità. Ipotesi per un congedo dal postmoderno, Allegoria, 2011.
- Il fatto di avere spesso fatto riferimento alla temporalità generata dal dispositivo, è stata, nel corso del testo, una scorciatoia linguistica: non crediamo che i dispositivi siano in grado di generare, in senso stretto, una temporalità altra, ma che si limitino a incarnarla.