Qui per la parte prima
Ci sono stati, nel Novecento, due eventi molto particolari e significativi, uno seguente – e conseguente – all’altro. Il primo è racchiuso in una immagine. Un uomo, dalla postura autorevole e una divisa militare, corredata da guanti bianchi e una bandana, si erge in piedi sul balcone dell’ufficio del generale Mashita dell’esercito di autodifesa giapponese. Urla parole che, solamente trecentocinquanta anni prima, avrebbero colpito nel segno e sarebbero state quasi banali. Ma i tempi sono cambiati. È il 25 Novembre 1970, e su quel balcone, Yukio Mishima fa il suo ultimo proclama davanti a giornalisti e militari del reggimento di fanteria.
Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.
Dopo aver finito, Mishima entrò nell’ufficio, si inginocchiò e attuò il seppuku, il suicidio rituale dei samurai. Che venne completato con la decapitazione, da parte di uno dei suoi discepoli. È la resa del Giappone all’Occidente americano.
Il secondo momento è, in realtà, un processo. La fine del Novecento è testimone di un fenomeno epocale di trasformazione e intensificazione delle relazioni fra le nazioni, le culture e le economie. Con le proteste a essa connesse, il XXI secolo, anche grazie ad internet, si è aperto come il secolo della globalizzazione. Tutto si è fatto più veloce, più fluido, e interdipendente. Uno dei contraccolpi negativi figli della politica e dell’economia globalista è stata, invece, la progressiva perdita delle identità locali. La semi-indifferenza al suicidio di Mishima riguardo ai temi da lui fatti vibrare quel giorno di novembre, da parte dei giapponesi, ne è stato un esempio lampante. Oggi, la cultura giapponese è spalmata dappertutto, in ogni interstizio lasciato libero. Cultura di massa, intrattenimento di ogni tipo, letteratura. L’Occidente ha inglobato il Giappone, che ora è ovunque – eppure, non è più da nessuna parte.
Una volta ancora, a distanza di millenni dalla prima volta, è accaduto l’assedio da parte dei predatori. L’esotico, ciò “che proviene da fuori” ha effettivamente minacciato il dentro e, per una gran parte dei casi, ha vinto. Lo ha fatto nel modo più classico, nel modo più naturale, ad ascoltare Girard: lo svantaggiato ha guardato il più forte come ad un modello, lo ha imitato, e si è appropriato di ciò che, però, gli veniva offerto in cambio della propria identità. Lo scambio è semplice: puoi imitarmi, a patto che tu lo faccia alla perfezione. Puoi avere ciò che ho io, a patto che abbandoni ciò che è tuo. L’unica concessione fu l’identificazione totale. “Una volta circoscritta la Terra come sfera, come spazio finito, tramite l’onnipotenza dei mezzi di comunicazione, non resta altro che la fatalità del turismo circolare che si esaurisce nell’assorbimento di tutte le differenze”. Il medico viaggiatore che odiava visitare aveva il dono della parola che non scade.
Éditions Galilée pubblica, nel 1990, la raccolta di saggi La Transparence du Mal. Lo ha scritto Jean Baudrillard, uno di quelli, assieme a Deleuze, che Lyotard chiama fratello. Il saggio numero quattro della seconda parte di questa raccolta, L’alterità radicale, si intitola L’Esotismo Radicale. Baudrillard, come Segalen, viaggia molto. È sempre bene far attenzione ai nessi causali, e perciò va lasciato alla libera interpretazione il fatto che il sociologo dedichi un intero saggio a Segalen.
Così si apre lo scritto di Baudrillard:
Alla luce stessa di tutto ciò che è stato intrapreso per sterminarlo, si illumina l’indistruttibilità dell’Altro, quindi la fatalità indistruttibile dell’Alterità. […] L’Alterità radicale resiste a tutto: alla conquista, al razzismo, allo sterminio, al virus della differenza, allo psicodramma dell’alienazione. Da un lato l’Altro è sempre già morto, dall’altro lato è indistruttibile. Tale è il Grande Gioco. (2018,p.160)
E poi cita Segalen: “L’impenetrabilità delle razze, che non è altro che l’estensione alle razzie dell’impenetrabilità degli individui” (idem). La scelta di Baudrillard è significativa, sia riguardo le parole proprie, sia riguardo le parole altrui. Il punto è che non esiste solo un’illusione dell’Altro in quanto parte di un orizzonte tangibile, dell’esotico come qualcosa che presto o tardi andrà “da fuori a dentro” e si farà interiorità. Il punto, radicato ben più in profondità, e figlio del rapporto incestuoso col fratello Deleuze, è che la soggettività stessa è una illusione. Perché?
Baudrillard la tratta come una considerazione banale: l’Altro è, e sarà sempre, irriducibile proprio come lo sono io per me stesso, poiché io sono il ripetersi della mia differenziazione. Almeno in teoria, se si accetta il gioco. “Scartare tutte le forme psicologiche, ideologiche e morali dell’Altro – scartare la metafora dell’Altro, l’Altro come metafora” (idem). È un atteggiamento, quello dell’esotismo radicale, che sabota i palliativi sentimentali.
Scrive Baudrillard: la questione dell’identità dell’America non è mai posta, a essere posta è sempre l’estraneità all’America. Come decifrare l’identità di un popolo che vive nell’inconciliabilità di voci lontanissime le une dalle altre? La risposta: è sempre in gioco la caccia a ciò che non è America. Su questo essa vive: sulla teologia negativa. L’alterità è il sublime, e il sublime non si tocca – ed è doloroso non perché non si tocca, ma perché lo si vorrebbe toccare. Il dolore svanisce quando il sublime riporta il corpo qui, dove sta. Viaggiare verso una meta che non abbiamo mai visitato prima è ritrovarsi in quel luogo e in nessun altro. “Il corpo ritrova il suo sguardo. Liberato dalle immagini, libera l’immaginazione” (ibid., p. 165). Circoscrivere il mondo in una sfera, e distenderci sopra una pellicola su cui sono impresse le anticipazioni dell’Alterità, le abitudini ricorsive; turismo dello spirito. L’obiettivo non è riconoscere la radicalità del solco che ci separa dall’Altro; è far riconoscere all’Altro il solco che, riaffermandosi, lo separa da se stesso.
Uno dei più peculiari scrittori francesi degli ultimi anni è Antoine Volodine. Arrivato alla sua diciottesima pubblicazione, l’ultima nel 2016 e la prima nel 1985, Volodine è stato causa di un grattacapo non indifferente per i critici letterari. Gli fu chiesto, a più riprese, a che genere appartenessero, secondo lui, i suoi testi. Volodine non ne aveva idea. Si cercò di creargli uno spazio proprio, qualcosa di nuovo e mai battuto, conferendogli la corona di padre di una corrente letteraria: il post-esotismo. L’idea di fondo che pertiene a tale nome è quella di superare il genere esotico di Conrad, ad esempio, e il genere di romanzo di formazione e introspezione. Basta con l’esplorazione dell’altro e basta con l’esplorazione del sé. Volodine esplora luoghi e umani che non esistono, lo fa attraverso gli strumenti classici, ma proponendo punti d’arrivo ancora più lontani rispetto a quelli di partenza. Scrivere di luoghi e tempi mai stati attraverso personaggi che non rappresentano alcun genere di umanità significa obbligare il lettore a una forzatura. Tale forzatura, il prestare attenzione, è chiave necessaria all’apertura dei cancelli che portano agli scenari che Volodine narra. Perché tale forzatura? In ciò che non si è mai visto attraverso le parole di chi non si è mai ascoltato non è possibile anticipare nulla. Tutto ciò che rimane è un abisso da colmare – e guardarlo fuggire poco prima del totale riempimento. Esotismo radicale.
L’attenzione è ciò che si presta quando si leggono per la prima volta i nomi dei personaggi di un romanzo, si ascolta per la prima volta la descrizione di un luogo. Ma come in Tarkovsky, così in Volodine: il nome sconosciuto è la cosa più familiare che si incontrerà. La letteratura contemporanea vive un momento di desaturazione. In un modo o nell’altro, a pagina quaranta cominciano ad assediarci immagini viste già troppe volte. La letteratura spiega lo stato del mondo. Rimane ancora almeno un Terminus radioso.
Riferimenti (relativi alla sezione corrente)
- Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. G. Mancuso, Feltrinelli, 2015
- Baudrillard, La trasparenza del male, tr. F. Marsciani, SugarCo, 2018
- Baudrillard, M. Sassatelli, An Interview with Jean Baudrillard: Europe, Globalization and the Destiny of Culture, European Journal of Social Studies, 2002
- Deleuze, Guattari, Millepiani, tr. G. Passerone, Orthotes, 2017
- Deleuze, Guattari, L’Anti Edipo, tr. A. Fontana, Einaudi, 2002
- Y. Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai e altri scritti, L. Origlia, SE, 2004
- V. Segalen, Saggio sull’esotismo: un’estetica del diverso, tr. V. Petrucci, Edizioni Scientifiche Italiane, 2001
- A. Volodine, Le Post-exotisme en dix leçons, leçon onze, Gallimard, 1998 (Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, 66th and 2nd, 2020)
- A. Volodine, Terminus radieux, Seuil, Fiction & Cie, 2014 (Terminus Radioso, 66th and 2nd, 2016)