Appunti per una metafisica dei passaggi – Parte III

Anamnesi

by / 27 Agosto 2022

Qui per parte I e II

I am so sick I have forgotten I am sick. That I can
remember this forgetting, but not what was forgotten, means
that any final cure, should it ever come, will arrive
not from the future but the past.
– G. J. Shipley1

La nozione di inhumaine, che Lyotard sviluppa a partire dalla seconda metà degli anni ‘80, rappresenta l’ultima sofisticazione del suo tentativo di pensare la relazione tra materia e tempo. Da una parte vi è l’inumano che precede l’anthropos, che precede l’umanismo come discorso totalizzante e monologico; dall’altra l’inumano del capitale e del techno-logos, prodotto della modernità e basato sul principio della performance, e sul criterio dell’efficienza2.  L’uomo produce apparati artificiali che simulano alcune funzioni del cervello, e accade che l’uomo osservi e imiti questi apparati a sua volta, utilizzandoli come punti di riferimento per se stesso. Capita allora che l’uomo imiti la macchina che lo imita – l’inumano che consegue neutralizza l’inumano che precede. Commistioni fra corpo organico e inorganico sono in ultima istanza equazioni fra elementi purificati da un doppio processo: il corpo tecnico, che imita quello organico, è osservato da quest’ultimo come modello a cui tendere. Così l’immagine attuale spera di materializzarsi nell’immagine futura, ripetizione familiare all’interno dei confini dell’impero, via di fuga dalla violenza della disintegrazione. 

Secondo Ashley Woodward, l’attenzione di Lyotard per il passage è soprattutto rivolta a garantire l’incommensurabilità fra significato ed esistenza. Ovvero, “permettere al pensiero di avere uno spazio in cui è responsabile solamente di se stesso e non della vita, e parimenti di garantire alla vita uno spazio in cui è responsabile di se stessa e non del pensiero”3. I confini fra questi due spazi, però, non possono essere mantenuti impermeabili – Woodward utilizza il verbo “to police”, che indica bene una sorveglianza repressiva. Al contrario, il compito che il pensiero stesso si prefigge è quello di pensare i passaggi fra questi confini, le loro modalità. Tale forma di attività speculativa, nota Woodward, è ciò che Lyotard chiama giudizio: quel “pensiero [guidato dal sentimento] che per necessità deve giudicare senza il ricorso ad alcun insieme pre-esistente di regole o criteri”4. Il giudizio stabilisce passaggi fra le isole di un arcipelago (simbolo dell’eterogeneità del pensiero), creando così canali di comunicazione e di scambio fra le isole stesse. Il giudizio non crea però ponti o “accordi” fra le diverse facoltà5 o i diversi giochi linguistici: ogni volta issa le vele e riparte, solcando di nuovo le acque. Questo è il regno dell’interazione, non della creazione.

Il giudizio inteso in tale maniera si fonda, per Lyotard, sulla dimensione pre-antropo-logica dell’inumano, come suo modo primario di interazione col reale. In ciò egli è limpido: l’inumano, così inteso, è il campo di resistenza che si oppone all’inumano del techno-logos. Tale resistenza è il ripresentarsi, mediata e canalizzata, della resistenza del mondo nell’anthropos stesso, nel suo essere forcluso a sé. E così l’inumano trattiene l’insieme di tutti quegli orizzonti difficili da integrare, censurati, dismessi, separati dalla rappresentazione dell’“essenza umana”: l’infanzia, l’inconscio. In particolare, l’infanzia contiene profonde potenzialità speculative, poiché non appare soltanto come l’età della vita in cui l’intreccio fra pensiero e sentimento è indissolubile – in cui ci si affaccia all’esistenza nella maniera del giudizio, ma è anche la dimensione che informa il giudizio stesso. Nell’idea di Lyotard ciò risulta come la facoltà di rinnovamento delle interazioni, delle relazioni, degli ordini e dei paradigmi: il movimento che pone in relazione l’amorfo e la forma, dispiegato in un atto di purificazione che è sempre originaria. Il giudizio è l’orizzonte del passaggio reale, del suo accadere senza lasciare traccia inscritta nella memoria, ma che comunque insiste e sopravvive nell’inconscio. Così krisis assume certamente il significato di giudizio6, come istante di rottura del tempo, in cui ogni premessa dell’evento fallisce nell’inscriversi in una narrazione. Se la crisi presuppone che nulla sia nascosto, il nascondimento è invece l’essenza del passaggio. Ma la prima non è che il riflesso di quest’ultimo – un riflesso di natura peculiare.

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L’operazione di porre in opposizione un oggetto contro se stesso, come di fronte a uno specchio, Lyotard la ripete spesso. È una strategia che ha origine dal continuo tentativo di contrapporre alle opposizioni del reame del concetto le disparità dell’arte astratta, di cui discute in maniera serrata nell’ultimo capitolo del suo libro-eresia, Economia Libidinale. Le identità (“il questo in questo e il quello in quello”7) elargiscono da sé fugaci scorci della loro superficie continua, della loro potenziale riapertura (poiché appaiono come corpi organici chiusi, invaginazioni). La riapertura si dà, per Lyotard, nella specchiatura. L’inumano si scinde; in sé mostra una natura bimodale, un doppio movimento, in cui non viene svelata o prodotta alcuna verità. Se la dialettica hegeliana è affermativa e produttiva – l’incontro fra figure instabili e opposte genera un risultato, una conquista – Lyotard mette in atto un lavoro di smembramento interno. Il fine di questa particolare dialettica intra-identitaria è la privazione: il gioco di riflessi fra “inumanità” si risolverebbe nella dissoluzione di ogni istanza. Nella consapevolezza della “continua frammentazione di tutte le cose”. È il punto in cui Lyotard incontra Dōgen e lo specchio chiaro. 

La postmodernità non rappresenta alcun tipo rottura epocale, né tantomeno una staffetta fra Weltanschaaungen. Il postmoderno è una possibilità della modernità stessa, sempre già presente al suo interno, poiché “un’opera può diventare moderna solo se è in prima istanza postmoderna”8 – ovvero, deve prima generare inquietudine e incomprensione, prima di venire inscritta nel nomos. Se Woodward riconosce in Lyotard due diversi “momenti”, quello che ruota attorno alla condizione postmoderna e quello relativo alla condizione inumana, per Yuk Hui, sulla scorta di altri lettori come Veerman9, i due momenti fanno parte di una stessa e coerente fase, successiva alla pubblicazione di Economia Libidinale. Modernità-postmodernità rispettano la logica che sottende all’opposizione inumano-inumano, ovvero una logica legata indissolubilmente al tempo. Non una logica del tempo, ma dei passaggi: il reame in cui tempo e materia manifestano il loro intreccio. Se il postmoderno è infatti la condizione attraverso cui qualcosa di moderno può apparire, l’inumano “infantile” è la condizione dell’inumano tecnologico. L’incontro fra i due poli dello stesso elemento non porta a una identificazione, a una riparazione materiale, ma a una frammentazione concatenata, contagiosa: il dominio del non-(moderno, umano, filosofico, essere…).

“Ci sono voluti due secoli perché i pensatori greci scoprissero l’idea di privazione. Solo Platone fu capace di comprendere questa negazione-come-privazione, e la discusse nel dialogo Il sofista10. La privazione non è forma di negazione assoluta, ma piuttosto “inversione di direzione”11. La postmodernità non appare così come negazione assoluta della modernità, not-modernity, ma piuttosto l’autonegazione della modernità in seno a se stessa, non-modernity. Il moderno, se non è postmoderno, “non è nulla” – letteralmente. Non Nichts, ma neanche un’identità sussistente. In ultima istanza, il punto attorno a cui ruota la riflessione lyotardiana, in questa danza di disparità celate nelle disgiunzioni, è l’incontro fra logos e techno-logos. “Può l’essere essere, senza appoggiarsi a un supporto, un hypokeimenon?”, chiede Yuk Hui facendosi araldo della questione di Lyotard. Può il techno-logos essere l’autonegazione del logos stesso? 

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Per comprendere il modo attraverso cui Lyotard giunge a porre la sua domanda è necessario ricollegarsi a due nozioni: anamnesi, e “specchio chiaro”. L’anamnesi appare come una modalità della memoria già in Platone, nel Fedone e soprattutto nel Menone, dove è presente il racconto del servo che è aiutato da Socrate a estrarre un contenuto “perduto” dalla sua memoria. In quel caso, il servo risolve un problema di geometria senza conoscere la materia. Con tale esperimento, Platone vuole dimostrare come la conoscenza non sia altro che un ricordo di cui ci si riappropria, prova della conformità fra mente e mondo e della natura simile di tutte le cose – alla riappropriazione di un sapere, ogni altro può potenzialmente seguire se il percorso è corroborato da una corretta educazione, la paidéia. La similitudine è unità, ma lo è in particolare per ciò che concerne l’anima immortale: Platone infatti afferma la separazione (chōrismós) fra Idea e materia. Se per Platone l’anamnesi non necessita quindi di un supporto materiale, Stiegler in Tecnica e Tempo, sottolinea come disegnare sulla sabbia il quadrato sia lo strumento necessario al Socrate del Menone per portare a termine il compito maieutico. L’anamnesi è così legata a doppio filo alla tecnica, secondo Stiegler: “l’anamnesi non è possibile senza un supporto che sia esterno all’anima noetica”12

Per Lyotard esistono tre differenti sintesi temporali, attraverso cui la materialità può ripresentarsi: l’abitudine, ovvero il ricordo incorporato; la rimemorazione, discussa in precedenza; l’anamnesi. A ognuna di queste corrisponde un tipo di effetto-memoria, rispettivamente: traccia, costruzione, passaggio. “L’abitudine riposa su una traccia”, una messa in serie di elementi neurochimici e cognitivi che portano il corpo ad assimilare e ripetere un’azione con il minimo dispendio di energia. La costruzione, o ricostruzione, invece è la cifra della rimemorazione: il passato è recuperato in quanto passato e sintetizzato in una immagine in cui ci si identifica, e in cui la dimensione di inscrizione è data dal linguaggio come tecnica. Un linguaggio che definisce, e che parimenti limita – che si fa supporto di un recupero volto a generare, ma rimane anche impigliato nella necessità delle sue regole e delle sue strutture. “La storia della vita sul nostro pianeta”, dice Lyotard, “non è assimilabile alla storia della tecnica nel senso corrente, poiché essa non è progredita attraverso la rammemorazione, ma attraverso un continuo aprirsi di strade”13. Il passaggio, invece, esplicato nell’anamnesi, si caratterizza per la differenza rispetto alla “sperimentazione abituale” e alla “rimemorazione volontaria”. Qui Lyotard fa entrare in gioco Freud e la sua Durcharbeitung – attraversamento, rielaborazione. Scavalcare la sintesi, espressa nella tecnica del passaggio come “non-regolamentazione14: nel far-parlare della Durcharbeitung, infatti, non c’è regola che il paziente deve seguire, né che l’analista deve imporre. Solo così sarà possibile l’emergere del non-inscritto attraverso ciò che è inscritto nella parola, nel ricordo sintetico del paziente. O nella scrittura, articolazione ed espressione di una dimensione non-esprimibile dalla scrittura stessa, nel senso di differente da ciò che viene espresso ma nondimeno presente, insistente, e sfuggente. L’oggetto dell’anamnesi è un’origine non-inscritta ma che non può essere dimenticata – come l’infanzia, dimensione che Lyotard con cui tenterà di dialogare più volte lungo tutto il suo lavoro.

Al fine di descrivere questa presenza, Lyotard richiama il maestro Zen Dōgen, e la metafora dello specchio chiaro

Prendo in prestito da Dōgen, da uno dei trattati del Shobōgenzō, lo Zenki15, questa metafora dello specchio: è possibile avere una presenza che lo specchio non può riflettere, ma che lo frantumi in schegge. Uno straniero, un cinese possono apparire davanti allo specchio e la loro immagine essere riflessa. Ma se ciò che Dōgen chiama uno “specchio chiaro” è di fronte allo specchio, allora “tutto si frantumerà in schegge”. E Dōgen precisa: “non immaginate che ci sia prima il tempo in cui lo sbriciolarsi non ci sia ancora, né che ci sia il tempo in cui tutto si sbriciola. Si tratta semplicemente dello sbriciolarsi (Shobōgenzō, pag. 106-107). C’è dunque una presenza che frantuma, essa non è mai iscritta né la si può ricordare. Non appare. Non è un’iscrizione dimenticata, non ha luogo né momento sul supporto delle iscrizioni, nello specchio riflettente. Resta ignorato dalle tracce e dalle ricostruzioni16.

Secondo Yuk Hui, ciò che Lyotard tenta di fare riferendosi alla questione dello specchio chiaro è di instaurare una logica dell’anamnesi e della negazione del logos per mezzo del techno-logos; è, ricollegandosi al disegno sulla sabbia di Socrate, una questione che interessa direttamente l’interazione fra materia e tempo. “Lo specchio chiaro non è uno specchio: piuttosto, è una possibilità della mente, di fronte al quale niente esiste per ciò che è: le cose possono esistere o non esistere”17. Se la forma della sostanza, della materia, attraverso cui il logos è performativo si configura come supporto (per la parola, per la scrittura, per il pensiero), la questione ruota allora attorno alla possibilità dell’essere di pensiero senza supporto – in quello che viene abbozzato da Platone come “essere oltre l’essenza”, da Heidegger come Lichtung. E che Hegel fallisce nell’osservare in quell’attimo in cui la Logica viene messa in moto. 

Yuk Hui recupera un altro esempio di tale logica in Dōgen, quando il maestro Zen chiede a un allievo di pensare al nulla. Nell’apparente impossibilità di tale richiesta (pensando a qualcosa, che sia anche la negazione del pensiero stesso, si fa atto di pensare), fra il pensare e il nulla emerge una terza via: non pensare. È il pensiero proprio della dottrina Zen, in cui la mente è attraversata da elementi che non seguono alcuna regola di manifestazione e che non possono aggrapparsi a nulla. In Lo Zen e il tiro con l’arco, Eugen Herrigel, riportando alla mente le sue lezioni di kyūdō in Giappone fra il 1924 e il 1929 – che sono in prima istanza lezioni sulla dottrina Zen – scrive che la particolare condizione della mente richiesta per effettuare il giusto complesso di movimenti atti a scoccare la freccia “non può essere concepita intellettualmente, anzi non può essere afferrata e spiegata neppure dopo che se ne è fatto esperienza, per quanto precisa e inoppugnabile: la si conosce non conoscendola”18. Quella cosa, quel piccolo e immenso segreto che Lyotard cerca di definire come campo del passaggio in cui si mostra con la sua concretezza l’interazione fra materia e tempo, mina quell’orizzonte di sapienza così familiare all’occidente. È questo ciò che il pensiero occidentale non è arrivato a pensare? si chiede Lyotard. Lo stupore che attraversa tutto il piccolo libro di memorie di Herrigel nell’approcciarsi allo zazen è già un’anamnesi.

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“L’anamnesi sarebbe questo avvertimento, questa messa in guardia, questo monito […] d’essersi rivolti (ana-) allo specchio chiaro, attraverso i frantumi”19. Modernità, postmodernità, non-modernità: ciò che appare conchiuso e definito si scioglie nuovamente. Umano, postumano, inumano: l’essenza che cerca la propria trasformazione – trasformazione che è già sempre contenuta nell’essenza – fa riemergere dalle crepe tutto ciò che, pur insistendo, non è inscritto e non può essere inscritto. Come il sudicio di Sierra, altra efficace manifestazione di un non- che re-inghiotte, operando per privazione (il sudicio è non-tecnologico proprio perché raccoglie quegli aspetti della tecnologia che la neutralizzano nella teoria del tecnologico). Infine – in Lyotard – logos, techno-logos, non-logos: la tecno-logia, contenuta già nel logos in quanto espressione ultima dell’inscrizione del pensiero su un supporto esterno, può essere la realizzazione di una concezione diversa della materialità – quella di cui sono latrici le nuove tecnologie digitali; una concezione che mina il logos stesso.

È bene rinnovare alcune domande: perché Platone si mostra così ossessionato dal divino e dal suo salvataggio? Perché osserva con disgusto e preoccupazione i sofisti che pongono in questione la consistenza stessa del mondo e della conoscenza? L’affermazione, da parte dei sofisti, della convenzionalità del nomos è già di per sé un’affermazione che scuote il mondo. E se poi essi aggiungono che ciò che è ignorato non può essere riconosciuto, e così neanche perseguito (in risposta a domande come che cos’è la virtù?), il mondo diventa nient’altro che un ammasso di schegge, e la parola uno strumento onnipotente di affermazione di ciò che una mente possiede, senza discernimento alcuno fra il giusto e il nefasto. Il pensiero, così, non è che una techné; il mondo è perso in partenza, lontano, inapprensibile. La soluzione platonica è tanto metaforica quanto incredibile: l’anima invero conosce tutto poiché a tutto è simile, ed eterna, ma a ogni incarnazione essa dimentica le sue vite passate, e deve essere capace di recuperare i ricordi – per mezzo dell’anamnesi. Il filosofo è colui che è in parte graziato dall’oblio del fiume Lete: egli ricorda che non ricorda più. Questa logica, il ricordare di non ricordare, è esattamente ciò che Yuk Hui definisce come la logica dell’anamnesi lyotardiana, il gioco dello specchio chiaro. Il senso di possedere qualcosa che non si può manifestare, di essere attraversati e composti da una dimensione che non si può esprimere – la resistenza freudiana, ma senza la parte analitica: effetti senza cause – è esattamente ciò che non può essere inscritto, che non è iscritto, e che resiste al logos. Così il filosofo è imparentato con Eros, a metà fra il dio e l’uomo ignorante, perché sempre teso in questo sentimento di non-possessione e di ricerca. Il divino serve a Platone per manifestare questo dominio dell’Altro, del non- che produce la tensione, ma che non si inscrive nel logos. L’errore di Platone, e della tradizione occidentale, sta nella riduzione di questo Altro al logos, ovvero dell’idea per cui quest’ultimo opera da medium per il primo, da organon di un’inscrizione impossibile, poiché sempre incompleta, approssimata. L’oriente, invece, ha strutturato la questione in maniera differente: “Pensa al nulla. Come puoi pensare al nulla? Non pensando”.  A ogni passaggio, si rinnova l’Altro come unità

L’Uno di cui emerge la forma nell’anamnesi platonica è un’alterità che si definisce nella similitudine (sungenḗs) delle cose della natura. Questa similitudine è ciò che precede gli enti particolari e che li rende intellegibili – è il mondo dell’Idea, il campo dell’Essere puro che investe la materia. Quest’ultimo, certo, non può essere a sua volta una determinazione particolare dell’ente, ma è l’Essere di ogni ente, che permette in prima istanza l’apertura dell’ente alla comprensione. L’Essere non è derivabile dall’ente, per Heidegger, e non è neanche pensabile nella similitudine, come afferma Platone. Piuttosto, è differenza: pur essendo in tutti gli enti, l’Essere non è nessuno di essi, e da essi differisce nella sua assenza di determinazioni. Severino aggiungerà alla problematica heideggeriana della differenza ontologica il fatto che questa differenza caratterizza l’Essere come non-ente; quando Heidegger afferma che Sein ist Nichts (l’Essere è il Nulla), non intende negare l’Essere in assoluto, ma in quanto nulla di determinato che accomuna tutti gli enti20. Severino riconosce allora che ciò che accomuna gli enti e l’Essere è il non-esser-Nulla: dimensione originaria, precedente alla differenza ontologica stessa. Unità, in un senso molto vicino a ciò che lo Zen definisce non-pensiero, e che Lyotard tenta di sviluppare come dialettica privativa. 

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Un pensiero che si trova dinanzi al non-pensiero, come uno specchio di fronte allo specchio chiaro, manifesta un “frantumarsi continuo” che non ha inizio né fine, ma è costante. Il frantumarsi delle identità, delle sintesi di identità, e anche delle differenze determinate. L’anamnesi appare quindi come il metodo di riacquisizione di tale dimensione di non-pensiero, di infanzia, di ricordo-del-non-ricordo. Ritrovare un’unità, quindi, che non è altro che presentata e mai pensata. Lyotard stesso pone come obiettivo della filosofia, in comunanza con Hegel, il tentare di ristabilire un’unità perduta21. Ma contro Hegel, il metodo anamnesico non è sistematizzante, e l’unità non è mai posseduta; procede senza regole, e con grande affanno, per ridefinire l’interazione fra materia e tempo nel passage. Un’unità che produce e nutre la differenza e che, come per le altre operazioni (letteralmente) speculative, si pone dinanzi al suo riflesso, l’unità totalizzante e totalitaria del discorso moderno. 

Perché è così importante per Lyotard rincorrere una questione così tanto ontologica al fine di pensare il techno-logos e la sua nuova materialità? Perché l’ossessione per il dominio del non-inscritto, quindi per ciò che precede “il passaggio tra infanzia e pensiero”22, e per l’infanzia stessa? In prima istanza, l’infanzia è per Lyotard il punto d’accesso attraverso cui l’Occidente può arrivare a pensare ciò che l’Oriente ha sviluppato come non-pensiero, poiché essa è quel reame che Freud definisce come di ciò che non è rammemorato, ma che continua a insistere costantemente sulla psiche. L’anamnesi, che opera senza regole, è perciò forma di resistenza a qualsiasi sistematizzazione e quindi a ogni forma di inscrizione23, nonché campo di manifestazione del differénd interno al logos stesso.  Il sistema è la rappresentazione di quella comprensione tecnologica dell’essere heideggeriana, o della terroristica ragione illuminista: addomesticamento, dominazione; contrapposizione di un soggetto e di un oggetto. Il sistema è il metodo di inscrizione del logos, che si esteriorizza in supporti materiali nel techno-logos. Osservando lo sviluppo delle nuove tecnologie di telecomunicazione e di memorizzazione, e quindi tutta una nuova materialità composta da interazioni fugaci, libere, e continuamente in divenire, Lyotard si chiede se questa “materia immateriale” non possa comportare l’inversione del logos stesso: un dominio in cui la specificità della relazione fra pensiero e materia si scioglie nell’immatériaux. Credere nelle proprie illusioni: definire il dominio del pensiero negli effetti (delle interazioni), e non nelle cause (nella concatenazione logica che cerca fondamento in un reale impossibile)24. L’uomo si fa interfaccia, mostrando i limiti del logos come forma di dominio di un soggetto su un oggetto. Lo specchio chiaro ricorda l’ineffabile presenza di qualcosa fra le forme, prima delle forme, e che le manifesta come frammenti. Pone i discorsi allo stesso livello, evitando l’affermazione e la legittimazione di un discorso sugli altri. Il pensiero ha responsabilità solo verso se stesso.

La posta in gioco nella riflessione di Germán Sierra sulla non-tecnologia sta proprio nel recupero di una forma d’unità. O di una dis-formità dell’unità, concependo infatti la comunanza fra corpo organico e inorganico come inversione del concetto di funzione, e anche di tecnologia. Nella performatività dell’oggetto tecnico è insito certamente l’incidente, come afferma Virilio, ma è ancora più implicita la sua fondamentale in-efficienza, il suo produrre scorie e residui che ne minano lo statuto. 

Il problema con l’ipotesi del modello cyborg, almeno per scopi teorici, è che esclude tutti gli aspetti non tecnici sia dei corpi umani che degli oggetti digitali, cioè tutti quegli aspetti d’eccesso che sono spesso trascurati per facilitare una corretta, simbolica, comunicazione uomo-macchina25.

Il sudicio è allora la condizione materiale che mina la materia stessa, in quanto sistematizzata, classificata, pensata, e in un certo modo determinata. Il sudicio, nell’impossibilità di una sospensione, (epoché), in quanto amorfo che inghiotte la forma, il miasma, l’ammasso umido e putrescente, è una modalità d’anamnesi – un aspetto dello specchio chiaro, resistenza alla pensabilità e al sistema: puro effetto, per la quale ogni analisi (ogni ricerca di cause) si dimostra inefficace. Un ammasso di corpi in processo di decomposizione o di corrosione diventano il campo in cui le specificità si perdono e le identità non sono possibili. Il sudicio è solo un aspetto dello specchio chiaro poiché ha ancora bisogno di un supporto, il corpo o la materia in generale, a partire da cui manifestarsi. Così la metamorfosi ricerca nel sudiciume, a sua volta, il proprio supporto, non in uno slancio produttivo o generativo, ma puramente sottrattivo. Il sudicio è per l’oggetto tecnico la sua fine proprio in quanto tecnico: la manifestazione di un’inconcepibilità (il differénd) interna alla forma stessa, frammentazione perpetua. 

La (non-)dialettica all’opera fra sudiciume e purezza, modernità e postmodernità, umanità, inumanità e postumanità non può essere definita solamente come un’operazione di smantellamento e ricostruzione a là Nietzsche, proprio perché oltrepassa l’ambito stesso della ricostruzione attraverso l’anamnesi. La posta in gioco è la dismissione delle strategie generative. Non separazione ed estrazione, ma indietreggiamento compulsivo che permetta di osservare nuovamente le interazioni fra le cose. La questione del passaggio fra umano e postumano, ad esempio, deve essere pensata proprio dall’interno del passage, da ciò che accomuna una così profonda crisi dell’umano con ciò che accadeva migliaia di anni fa a Gobekli Tepe, o ancora prima, nel lungo giorno in cui è avvenuta la separazione simbolica fra il predatore e la preda, fra l’uomo e l’animale. Quel susseguirsi di forme, poste davanti allo specchio chiaro, rivelano il loro carattere di frammenti e schegge. La natura primigenia delle divinità, la loro familiarità nella metamorfosi, l’ambivalenza segreta e irriducibile del sacro, rappresentava già una forma di ricordo impossibile, di senso-del-ricordo di qualcosa che non si è potuto inscrivere ma che permane in una relazione con l’animale, scrive Calasso, che appare per tutto il cammino del pensiero come un campo di inesplicabile alterità radicale. Alterità che è “la condizione del différend26 e torna prepotentemente in varie forme dall’interno delle identità – la dialettica dello specchio chiaro come Altro del logos occidentale; l’animale come Altro dell’uomo; il corpo inorganico come Altro del corpo organico. Questo a dire che in fondo, se “in fondo” ha un qualsiasi senso, i passaggi sono molteplici, e in ciò sono Uno.  

Calasso nota come il divino che Platone difende sia differente dall’oggetto del sacro inteso come violenza della metamorfosi. Non ci sono dèi che si fanno animali, uomini, oggetti, in Platone: l’attenzione per la conformità fra mente e mondo, dell’identità delle Idee in loro stesse, sta alla base dell’anamnesi intesa come recupero dell’Essere per mezzo degli enti, che perciò non possono variare; per tale motivo la matematica e i rapporti numerici risultano così importanti – e per tale motivo la scoperta degli incommensurabili sarà l’apertura di una voragine nella filigrana del mondo. Il divino Platonico è solo il sentore di una sacralità ben più antica, e ben meno determinata dalla purezza. È esso stesso un’anamnesi incompiuta, il ricordare di non ricordare l’ineffabile. Anche con Platone la metamorfosi continua a perdersi. Il sacro come monito lascia il campo al sacro come legge. Cinque secoli più tardi, Plotino riprenderà gli insegnamenti di Platone, celando una grande capacità di rinnovamento dietro al compito di riordino e completamento dei pensieri dell’ateniese. Plotino non è interessato alla politeia, ma alla vita intesa nella maniera più generale, zoé – e all’unità di tutte le cose nella natura. Così che, Calasso osserva, è necessario che anche il male, la guerra, la violenza siano parte dell’unità, senza che nell’affermare ciò vi sia troppo scandalo. “Il logos per essere ha bisogno delle differenze, e la massima differenza è l’opposizione”27; l’unità plotiniana ha origine e si perfeziona nel conflitto, che è un’interazione. Così Plotino introduce l’utilità del male, novità assoluta nel pensiero filosofico, memoria ricorrente nella ritualità: “questo appartiene alla più grande potenza: far servire il male per il bene ed essere capaci di utilizzare ciò che è divenuto informe per farne altre forme28. Come a dire che nel conflitto fra le forme, nell’esaurimento delle figure, nella crisi, il passaggio è il luogo in cui si apre l’inafferrabile continuità. Nella metafora dell’arcipelago di Lyotard, l’unità va rinnovata percorrendo ancora i tratti di mare come se non fossero mai stati percorsi, poiché nel mare non permangono tracce, e nessuno scafo solca mai la stessa onda due volte. Recuperare i frammenti sparsi e riorganizzare il pensiero sulla base delle nuove interazioni che il mondo ci presenta. Cosa è il corpo dinanzi all’ingegneria biomedica? Che cosa è la materia dinanzi all’informazione? Che cosa è la vita dinanzi all’entropia? Il male, la tendenza a trattenere le forme nella loro disintegrazione come se non fossero sempre frammentate, è indispensabile alla consapevolezza che ogni passaggio è uno solo. Il male non è orrore in sé; è orrore per l’eternità.

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Ne Il destino dell’uomo nel mondo contemporaneo, Berdyaev scrive che l’umano “non desiderando più di identificarsi con l’immagine di Dio, diventa allora l’immagine della macchina”29. In un mondo macchinizzato l’uomo stesso si fa macchina: la crisi della spiritualità è per Berdyaev già, paradossalmente, la fine di tale crisi e l’affermarsi di qualcos’altro. Perdendo Dio, dice Berdyaev, che lo ha fatto a sua immagine e somiglianza, l’uomo perde se stesso – ma il pericolo della disintegrazione è una minaccia troppo grande, e nuove strategie si mettono in moto. Quando Turing stabilisce “che gli ‘stati della mente’ ipotizzati per la sua macchina potevano essere contati”30, non lo fa per convinzione ma per un’approssimazione conveniente. “Se ammettessimo”, scrive in On Computable Numbers, “una infinità di stati della mente, alcuni sarebbero ‘arbitrariamente vicini’ e si confonderebbero”31. Calasso intercetta con finezza la minaccia che Turing sente addosso: “occorreva schivare il continuo e perciò trattare gli stati della mente come qualcosa che manifestamente non sono: singoli blocchi ben separati”32

Turing sapeva benissimo che il sistema nervoso non era una macchina a stati discreti come la macchina universale da lui stesso ideata nel 1935. Anzi, precisò che “in senso stretto non esistono macchine di quel genere. In realtà tutto si muove in modo continuo”. […] Il cervello non è e non potrà mai essere una macchina a stati discreti ma, in varie circostanze e per motivi diversi, simula di esserlo33

La macchina di Turing circoscrive un’operazione del cervello e la replica; essa simula il cervello nell’atto di simulare. Trascurando così un arcipelago immenso, e ammainando le vele del galeone che, ogni giorno nuovamente, avrebbe dovuto attraversare lo spazio fra le isole. Il cervello osserva se stesso nella macchina, come di fronte a uno specchio. Se il riflesso restituisce l’immagine, che appare come una restituzione in cui identificarsi, la purificazione ha luogo in maniera sempre più sofisticata. Ma se per qualche motivo assurdo lo specchio non riflettesse ciò che ha davanti, ma fosse vuoto, chiaro, resistente a ogni gioco produttivo e determinante, come un’onda che si ritrae perennemente alla presa della spiaggia, ogni cosa sarebbe in frantumi come è sempre stata. E fra i frantumi: una nave, in continuo movimento. Davanti alla macchina di Turing il cervello non cercherà la macchina, non creerà la macchina, ma si ritrarrà in sé per definire l’interazione e il significato dell’interazione fra sé e la macchina. Ogni nuova, possibile relazione non è solo un ritorno alle domande (Arendt), ma un ritorno all’infanzia. Un rito di morte e di rinascita; un rito di passaggio.

  1. On the Verge of Nothing, Nine-Banded Books, Charleston, 2021, p. 42
  2. Scrive Woodward, relativamente a questa accezione dell’inumano: “the contemporary global system which no longer functions even in the pretence of bettering humanity, but according to the criterion of performativity or efficiency which is the result of the combined logic of capital and technoscience” (Lyotard and the Inhuman Condition, Edinburgh University Press, 2016, p. 5)
  3. ivi, p. 36
  4. idem
  5. in contrasto alla nozione di consenso e di trasparenza comunicativa che sviluppa Habermas, e verso cui Lyotard coltiverà lo stesso sospetto che verso le grandi metanarrazioni emancipative. Cfr. M. Peters, Lyotard, Education and the Problem of Capitalism in the Postmodern Condition, ERIC, International Meeting on Education (Chicago), 1997
  6. come in Demostene o Sofocle, citati in precedenza
  7. Lyotard, op. cit., 2012, p. 267
  8. Lyotard, The Postmodern Condition: a Report on Knowledge, University of Minnesota Press, 1984, p. 79
  9. D. Veerman, “Introduction to Lyotard”, in Theory, Culture & Society, SAGE London, vol. 5, 1988, 271-5
  10. Heidegger, Zollikon Seminars: Protocols, Conversations, Letters, 46-47
  11. Y. Hui, A. Broeckmann, 30 Years after Les Immatériaux, meson press (Hybrid Publishing Lab), 2015, p. 187. Yuk Hui riprende l’esempio dello sci di Heidegger per spiegare la privazione: “When ­I ­am ­asked ­if ­I have time for skiing, ­I ­reply,­ “no, ­I­ don’t ­have ­time”. ­In ­fact, ­I ­do ­have ­time,­ but ­I ­don’t ­have ­time ­for ­you.” ­
  12. ivi, p. 184
  13. Lyotard, op. cit., 2015, p. 77
  14. ivi, p. 80
  15. Il trattato a cui si riferisce Lyotard è in realtà il Kokyō, un lungo passaggio in cui Dōgen riflette sulla relazione fra l’Antico Specchio e lo specchio chiaro nello Zen. Il richiamo allo Zenki, capitolo assai più corto che tratta della vita e della morte, è un errore.
  16. ivi, p. 81
  17. Yuk Hui, op. cit., 2015, p. 188 (mio corsivo)
  18. E. Herrigel, Lo zen e l’arte del tiro con l’arco, Adelphi, Milano, 1987, p. 24
  19. Lyotard, op. cit., p. 82
  20. Cfr. E. Severino, Heidegger e la metafisica, Adelphi, Milano, 1994
  21. Woodward, op. cit., 2016, pp. 56-61
  22. ivi, p. 23
  23. Yuk Hui, op. cit, 2015, p. 201
  24. Lyotard, op. cit., 1993, pp. 252-254
  25. G. Sierra, “Filth as Non-technology”, in Keep it Dirty, vol. a., 2016, p. 11
  26. Yuk Hui, op. cit., 2015, p. 180
  27. Plotino, Enneadi, III, 2, 16, 54
  28. ivi, III, 2, 5, 23-25, mio corsivo
  29. 1947, trad. L. Cagliari, Bompiani, Milano
  30. Calasso, op. cit., 2016, p. 131
  31. A. Turing, On Computable Numbers, in The Essential Turing a cura di B.J. Copeland, Oxford University Press, New York, 2004, p. 79
  32. Calasso, op. cit., 2016, p. 131
  33. ivi., p. 132
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