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Appunti per una metafisica dei passaggi – Parte I

Dissonanze e ambivalenze

by / 8 Luglio 2022

Qui per parte II e III

Il gesto mitico è un’onda che, nell’infrangersi, disegna un profilo,
come i dadi gettati formano un numero. Ma ritirandosi accresce nella risacca la complicazione indominata,
e alla fine la commistione, il disordine, da cui nasce un ulteriore gesto mitico.
Perciò il mito non ammette sistema.
[…]
Le storie non sono mai isolate; esse sono i rami di un 
albero genealogico che abbiamo il compito di seguire all’indietro, e in avanti.
– Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia

Finora ci sono stati due binari o due linee temporali diverse: quella […] nella quale il futuro è prevedibile, un progresso costante nel quale ci trasformiamo progressivamente nelle nostre madri e nei nostri padri […]. E poi c’è la seconda linea temporale, il tracciato occulto nel quale questa normalità è solo un labile schermo steso sopra qualcosa di sanguinoso e atavico che sta risorgendo dal buio della storia per venire a incontrarci.

Attraverso queste parole, pronunciate dal protagonista Seymour Levov, si avviano alla conclusione sia Pastorale Americana di Philip Roth, sia la riflessione di Gianluca Didino riguardo alla dissonanza cognitiva in seno all’occidente. L’oggetto è, in entrambi i casi, la manifestazione di una minaccia inaspettata, un’apparente rottura nell’ordine del tempo. La scissione fra aspettativa//realtà, utopico//reale, normale//patologico sarebbe ciò che produce la dissonanza: oltre le pareti della cupola della fine della storia soffia un vento testardo che, talvolta, penetra all’interno, fa crollare gli immensi cartelloni pubblicitari che parevano grattacieli dalle vetrate brillanti, e alza i teloni impermeabili in PVC che simulavano lunghe e ampie highways su cui correvano sagome leggere di cartapesta sapientemente piegata. Per discutere della guerra, Didino e il suo Roth giocano con gli origami: un paesaggio tranquillo e sicuro, l’orizzonte pastorale della domus1 Levov, e il perdurare di ciò che, apparentemente esiliato, perturba e minaccia, incarnato dalla figlia di Levov, Merry. Pastorale Americana coglie questo: che la normalità, la cosalità che segue la norma, è la simulazione di un mutamento senza trasformazione – diventare le nostre madri e i nostri padri – che si oppone all’“atavico”, al sospirare del vento e di ciò che lo accompagna. Alle domande e suppliche di Seymour, la figlia Merry non può dare risposta; ella è Odradek, il cruccio del padre di famiglia.  

In Filth as Non-technology, Germán Sierra elabora una riflessione sulla logica rappresentativa propria della tecnologia in quanto pregiudizio metafisico. La questione in gioco è quella legata alla commistione tra corpo organico e corpo inorganico nell’ideale postumano del cyborg. La tecnologia ci permette già oggi di non dipendere più completamente dalla carne; possiamo immaginare un futuro prossimo in cui le funzioni del corpo saranno espletate – meglio – da apparati artificiali, non soggetti alle incurie del vento. Un futuro, questo, in cui possiamo immaginare che i nostri corpi saranno un po’ più nostri, non vittime di soggettività microscopiche e virulente, o impazzite e autoreplicanti. Sierra si diverte a porre domande al cyborg. Il mio corpo, gli dice, in cui forse ritrovi familiarità, è affetto da tutto ciò che è sudicio – è sudicio esso stesso, umido e poroso, attraversato dal mondo che in esso crea un altro mondo. L’infezione produce materiale purulento; un pasto, l’escrezione. La copulazione è affare sporco e umido. Abbiamo imparato a pensare ai nostri corpi come efficienti insiemi di funzioni, e alla loro sconfitta come malattia della carne, insudiciamento e imputridimento – essere vittima di quella parte della disgustosa della materia che ammala l’altra materia, quella sana e asciutta e buona. Il tuo corpo, amico cyborg, è composto da apparati tecnici, mi dici, più efficienti. La nostra differenza pare quindi una differenza di grado; anche il mio corpo è un oggetto tecnico, ma il sudiciume lo infesta, io stesso ora sono qui in piedi, e dopo sarò un ammasso marcio e putrido e infetto. Hai superato, amico cyborg, questo nostro immondo inferno del corpo? 

Il sudicio del corpo, afferma Sierra, è più in generale il risultato dell’espletamento di funzioni e di interazioni fra funzioni, tanto esterne quanto interne al corpo stesso. La tecnologia non è in alcun modo salva, né salvifica. È sudicio lo scarto industriale chimico, l’emissione inquinante, l’acido che striscia fuori dalla batteria e corrode ciò che tocca. Alla funzione corrisponde l’escrezione, che è un mondo nel mondo, un orizzonte che eccede la nostra visione ordinata delle cose. La condizione di emergenza ecologico-climatica in cui viviamo è il frutto dell’insudiciamento del mondo da parte del grande corpo tecnologico. Pensiamo alla materia in modo troppo purificato, ammonisce Sierra: i nostri concetti sono cartelloni che fanno da facciata, e che, lungi dal rappresentare efficacemente la totalità dell’oggetto, nascondono il suo brulicare sotterraneo. Sotto, dietro, l’altra faccia del reale è il putrescente che non si cura delle rappresentazioni. Estraiamo la forma come da uno sfondo oscuro, e la levighiamo facendo attenzione che non si corrompa con l’amorfo da cui l’abbiamo estratta. Il cyborg guarda Sierra in silenzio; ennesimo esperimento di bricolage. Come possiamo pensare alle cose senza considerare il loro eccesso – il loro divenir-opposto? 

Pochi oggetti mantengono un ruolo tanto centrale nella riflessione contemporanea come il corpo. Transumanismo e postumanismo esistono in funzione di un’elaborazione dell’immagine del corpo nell’intreccio con ciò che è tecnologico, inumano, non-umano – altre vesti della corporalità, altre forme. Queste immagini non si rivolgono solo al futuro ma, spesso, a un presente eterno: ripensare l’umano oltre se stesso, ritrovarlo, ricostruirlo. Immagine, forma: artefatti concettuali, superfici illuminate da luci brillanti. Laddove la luce è più forte, l’ombra è più nera. Se cancellassimo tutti in una volta i vincoli astratti che costituiscono i mondi a nostra immagine, suggerisce David Roden2, e se immaginassimo che “strato per strato, concetto per concetto” le forme di cui sono composti questi mondi svanissero, il residuo non sarebbe un altro mondo. Sarebbe un incontro con un ricordo inaccessibile, con una resistenza “irriconoscibile e incoccettualizzabile”. Il sudicio ne è una forma – una forma dis-formata (à la Lautréamont3), una presenza assente; una dimensione alchemica e oracolare che neutralizza ogni pretesa affermativa della teoria. Nessuna filosofia può spingersi verso quell’orizzonte opaco – il reale laurelliano – senza subire un’ostracizzazione perenne. Il corpo rimane così sospeso tra immagini insufficienti e proiezioni di sé, fantasmi le cui carni marciscono nel futuro.

Il sudicio è dissonanza, e la dissonanza si dà nel tempo e a partire dal tempo. Il sudicio è uno spettro dalla natura peculiare; rimane sempre attivo, compreso tra virtualità censurata e attualità insopprimibile. È lo spettro che minaccia perennemente di inghiottire gli altri spiriti, come il Senza-volto de La città incantata di Hayao Miyazaki. Una delle vittime: il (futuro del) corpo. Cosa è in atto nella teoresi che assembla l’oggetto “umano-inumano”, e che tenta di operare sottrazioni all’umano in modo da estrarre, si spera – forse – se si riuscisse – magari – una nuova sezione di piano, molti livelli sotto, su cui rinascere? Il tentativo di ricomporre il tempo. E ciò significa: il tentativo di liberare il passaggio. Che è già in atto, che è già virtuale, perché i passaggi si manifestano solo quando si sta già passando. E muovendosi, attraversando, lasciando un luogo per cercarne un altro – magari perché ciò che si lascia non esiste più, e non si sa cosa esista altrove – si rischia sempre di perdersi, di disintegrarsi, di insudiciarsi. Il sudicio, pharmakòn: memoria dei passaggi e, in essi, minaccia. Quanti passaggi ci sono stati? Cosa è capitato in quel tempo di pura vita imbozzolata? Là dove le teorie falliscono, dove i cyborg e i cervelli nelle vasche e gli Avatar e i Terminator danzano senza palcoscenico, il reale si articola nel passaggio. E ogni passaggio è una dimensione pratica, è il dove e il quando non si può fare altro che procedere. O disintegrarsi.

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Lo scambio simbolico è per Baudrillard l’orizzonte nostalgico verso cui sarebbe giusto tendere, lontano dal groviglio delle strutture del capitale. Scambio simbolico significa questo: esaurire le risorse libidinali in un’economia del dono e del controdono che si curi della conservazione dell’oggetto-merce, che così non è più merce, ma non è neanche più oggetto: è orizzonte semantico e simbolico, spazio di giustizia per le potenze del desiderio4. Anche Marx, per Baudrillard, è colpevole di reiterare una logica della produzione e del valore, che così subordina le relazioni personali al prodotto del lavoro come utile e al desiderio sempre differito. L’utile è ancora una categoria imperialista e un immondo censore – lo dice anche Bataille. È proprio nella tensione prodotta dalla nostalgia di qualcosa di perduto, il tempo del buon selvaggio, della domus, che però Lyotard scorge un vagare sognante di Baudrillard: nelle società primitive non esiste modo di produzione né produzione… nelle società primitive non c’è inconscio…? Invero è, risponde Lyotard: non ci sono società primitive5

L’utilizzo della moneta, nella Grecia del VI secolo a.C., si diffonde in maniera incredibilmente veloce. Le prime monete vengono ritrovate nell’Artemision di Atene6, il tempio della dea della caccia, “la più selvaggia di tutte le divinità elleniche”7 (Farnell, 1896). Qual è il segreto della moneta? La nascita delle società e dei legami fra gli individui si è basata sull’economia del dono e controdono, base dell’associazione, obbligo morale e simbolico. La capacità di contraccambiare il dono regola il grado di relazione fra le persone. La ricchezza è il volume, la capacità di offrire più di quanto si riceve, e in ciò essi sono anche il potere. Ogni dono assume un valore, e in quel valore vi è il sovrappiù che lo pone in relazione agli altri oggetti nello scambio. Se così non fosse, nessuna gerarchia si sarebbe mai affermata. Gli Alcmeonidi, stirpe infausta da quando uccisero il tiranno Cilone sul suolo sacro dell’Acropoli, non persero mai il carattere di aristoi. I simboli interessano agli dèi; noi dei frutti della terra facciamo uso. Il dono cambia la natura dell’oggetto donato, che diventa simbolo di una relazione cristallizzata. Che fare dell’oggetto? È sacro, non lo si può più toccare. Donare un bue ad Artemide, dea della caccia, significava estrarre l’animale dal reame del vivente e concederlo all’universo dei segni. Non è più carne, il bue: è etere. Sulla moneta può essere rappresentata la figura del bue, ed essa può essere concessa alla dea come segno di un segno, rappresentazione di un animale che noi utilizzeremo per arare la terra, e poi restituiremo alla sua morte. Nel mentre, ecco il metallo, e l’effigie dell’animale, tuo figlio, tua preda. La moneta è soltanto una sofisticazione; nella mente, ogni oggetto si scambia già con il suo nome, e il suo nome con la sua immagine, e l’immagine con un modello. La mente è già un mercato.

Secondo Thomas Kuhn, le modalità di conoscenza del mondo sono rappresentabili sulle due facce di una moneta8. La relazione fra gli oggetti, conchiusi in un mondo-in-sé, e i simboli che a essi si riferiscono non produce alcuna gerarchia; la conoscenza linguistica, appresa e tramandata, e la conoscenza della natura sono indissolubilmente intrecciate. Esse sono “due facce di una stessa moneta che il linguaggio produce”9 in un dato contesto di riferimento.  La ricerca scientifica si costruisce sulla base della resistenza che il mondo oppone alla nostra interpretazione, nel gioco fra linguaggio e natura. A partire da quella resistenza si generano visioni differenti, i paradigmi. Come riconosce John Tresch, la teoria dei paradigmi di Kuhn risulta particolarmente efficace, oltre che per l’analisi della conoscenza scientifica, per l’antropologia e per la storia10: fino a dove può spingersi un individuo afferente a una certa visione di mondo per descrivere paradigmi differenti dal proprio, e porsi con essi in dialogo? La risposta di Tresch ha dello scandaloso: l’incommensurabilità dei differenti mondi fenomenici obbliga lo storico a riconoscere “che egli è condannato a scrivere una storia etnocentrica o basata sul suo presente”11, e che “ogni pretesa dello storico di essere entrato nel mondo fenomenico di coloro che studia è semplicemente falsa”12 Per l’antropologo, di contro, la possibilità di studio reale delle diverse visioni di mondo è limitato alla sua contemporaneità, e alla necessità di immergersi completamente nel contesto di studio (go native13). Fra i paradigmi che informano i diversi mondi fenomenici nei diversi contesti non c’è soluzione di continuità, e nessuno di essi è riducibile all’altro; essi sono vivi, e solo fintanto che rimangono vivi li si può esperire. Secondo Tresch, questa esperienza si definisce esattamente come doubled consciousness14; lo studioso, nell’immergersi in un altro mondo, fa esperienza di esso tanto quanto fa esperienza del proprio. Ogni paradigma è, perciò, una forma di strutturazione della coscienza. Quando un paradigma scompare, scompare un mondo.

Che cosa è il passato? “Nel pensiero politico, e dunque sociologico ed etnologico dell’Occidente, dal Platone del Timeo che va a cercare i depositari della sua utopia atlantica fra gli antichissimi selvaggi egiziani, fino al pensiero socioeconomico di Marx, c’è, costantemente, il riferimento a una buona natura ribelle, dimenticata, forclusa”15. Il passato è una lotta fra il perduto e il necessario. Nel passato si cerca la redenzione dal male, o la sua origine. Lyotard combatte con ardore la nostalgia di Baudrillard, e la redenzione. Riscrivendo la storia, come fanno Marx, Nietzsche, e pure Baudrillard, non si fa che ripetere, spostando l’asse d’appoggio. Qualcosa verrà purificato, qualcos’altro insudiciato – purificare: far risaltare una forma da uno sfondo. Quando nel Rinascimento gli esponenti della nuova cultura tentarono di definire loro stessi e il loro presente come spaccatura rispetto ai “secoli bui” del medioevo, la rivoluzione che ne emerse fu un recupero dell’antichità classica – e, perciò, tutt’altro che una rivoluzione. Il medioevo parve scomparire a lungo, sopravvivendo incastonato sulla sconfinata superficie dei manoscritti degli amanuensi. Grazie a loro l’antichità, attraverso cui il nuovo mondo avrebbe rotto con la sua vicina oscurità, ha continuato a esistere. Valse lo stesso per la Rivoluzione francese, intesa come il ritorno della romanità: “per Robespierre, la Roma antica era un passato carico di attualità”16. Paradosso delle cesure.

Ogni strategia di fuga da un dato orizzonte viene riassorbita all’interno del campo più ampio del dispositivo di cui fa parte. Si riscrive una filosofia, ma il filosofico come dispositivo rimane totalmente operativo, e con esso la gerarchicità delle strutture. Il discorso condivide con Laruelle la rilevazione di un macchinario nascosto che precede ogni formulazione, e che neutralizza, all’interno della sua struttura, ogni fuga. Scrive Lyotard: 

Rimembrandosi, si vuole ancora troppo. Ci si vuole impadronire del passato, si vuole afferrare ciò che se ne è andato, si vuole governare, esibire il crimine iniziale, il crimine originario, perduto, manifestarlo come tale, come se potesse essere liberato dal suo contesto affettivo, dalle sue connotazioni di inganno, orgoglio, d’angoscia nelle quali si è ancora attualmente immersi, e che precisamente motivano l’idea di un’origine.17

Disconoscere significa necessariamente oggettivare ciò che si è stato, rimemorandosi – attraverso ricordi non propri, ma innestati e guidati dalla struttura che è già presente prima del proprio venire al mondo, e che quindi è presente da sempre, eterna. O finché non se ne rivela la vulnerabilità, il sudiciume, l’incapacità di accogliere tutto in sé. Nota Lyotard: Freud differenzia la rimemorazione, Erinnerung, dalla rielaborazione, Durcharbeitung18. Yuk Hui, nel cercare di definire una soluzione al pericolo di totalizzazione della ragione tecnologica, afferma che è necessario, come dice Lyotard, effettuare una Durcharbeitung su tale logos, per manifestarne il carattere locale e storico, e permettere alle altre cosmotecniche19 di riguadagnare spazio e legittimità. Come teorizzata da Freud, questa rielaborazione funziona così: il paziente dovrà essere messo in grado di parlare della sua condizione in totale libertà, in maniera quasi passiva – facendosi parlare dal proprio inconscio – così da permettere all’analista, in questo fluire di argomenti e parole, di intuire l’immagine che emerge, di catturare le forme che si rivelano nel pensare del paziente. Tale modalità d’analisi rappresenta l’oggettivazione massima del paziente e parallelamente, la soggettivazione del suo mondo inconscio e affettivo: è quest’ultimo che parla e si mostra, descrivendosi a tutti gli effetti. La Durcharbeitung è superiore a ogni tipo di rimemorazione proprio perché nel ricordare – nel ricercare le origini attivamente – si è sempre sottomessi al dispositivo di cui si cercano i contorni. Nel ricordare, nel voler ricordare, è ancora la struttura – il paradigma – ad agire, ma dissimulandosi nella coscienza vigile. Yuk Hui, con argomentazioni per certi versi simili al discorso di decolonizzazione psicologica che Fanon costruisce in Pelle nera, maschere bianche, auspica che attraverso tale operazione di disconoscimento-riconoscimento del “pensiero occidentale” sia possibile non solo neutralizzarlo, ma anche riportare in vita tutte le cosmotecniche da esso insidiate, e far sì che emerga un pluralismo di interpretazioni del mondo. 

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La tragicità in seno alla civiltà Greca ha nel concetto di legge la sua manifestazione più specifica. Per gli hellenes – per l’insieme di clan e tribù che danno lentamente vita alle poleis –, il nomos diventa molto presto tanto una necessità quanto un’ossessione. In gioco c’è il buon funzionamento della struttura sociale. La grandezza di Solone di Atene fu quella di sviluppare un corpus di leggi scritte e pubbliche molto specifiche, utili a sciogliere le tensioni che andavano formandosi nella polis fra proprietari terrieri e contadini indebitati. Solone scrisse anche poesia20, e quella poesia è per noi un dono: anamnesi di un greco, legislatore, tragico. In quelle pagine si alternano pensieri sulla città a metriche rabbiose che inveiscono contro l’ignoranza degli uomini e l’indifferenza degli dèi al male. In Solone, come nell’uomo greco in generale, persiste un’inquietudine tragica causata dall’incapacità di far collimare l’ordine del mondo divino e l’imprevedibilità e l’ingiustizia del mondo degli uomini. Platone scriverà riguardo a “quanto differiscono invero la natura del necessario e quella del bene”. Tutto ciò che funziona nella società civile deve farlo per noi, perché il sangue non scorra fra i cittadini. Quando Tucidide parla del phobos21, discute della paura della violenza, della rottura dei legami – fra noi e gli estranei, e fra noi e i nostri compagni, i nostri padri, i nostri figli: è la paura del malfunzionamento della tecnologia sociale. Il fiume informe di sangue che la violenza minaccia continuamente è per i Greci l’angoscia più grande; essi tentano di esiliarla – oltre le mura della città, oltre i confini della polis – ma sono consci che ogni psyché è sempre minacciata dall’incedere degli spiriti panici: l’ordine è come una corda in perenne tensione che mantiene la struttura sospesa su una voragine. Tucidide racconta della guerra del Peloponneso perché sa che ciò che ha visto è lo spezzarsi della corda. Lo spirito greco è lontano dalle immagini auliche che impregnano le fantasie romantiche; è una società che sperimenta la tecnologia per sopravvivere, e che riconosce la densità informe del male.

 René Girard fa della violenza la causa fondante l’ordine sociale, descrivendo il carattere di quest’ultimo come tecnologia di esorcizzazione: la violenza è l’antagonista che unisce, che mette in moto le potenze nello sforzo comune. Dalla violenza originaria nasce il sacro, perché è la violenza stessa a essere l’oggetto del sacro, ingabbiata e gestita mediante il rito, narrata mediante il mito, controllata e purgata attraverso il sacrificio. Il mondo umano si fondava sui riti. Quello moderno, oppone Calasso, al contrario si fonda sulle procedure: “se il rituale mira alla perfetta consapevolezza … [l]e procedure, invece, puntano verso il totale automatismo”22. Figure di un calvario della coscienza in cui essa è il Cristo, e Pilato. 

Sacer-facere, fare sacro – sgozzare la bestia che concede che il suo sangue macchi la pietra e il suo muschio, perché non sia nostro il sangue che si sparge. L’animale – quando esso è già “animale” – è un amico fedele: assume il dolore in sé, ci nutre e ci difende. Ma la bestia può essere anche un uomo. C’è stato almeno un tempo in cui non ci si è posti la questione della differenza fra l’animale e l’uomo, partecipi di un divenire comune, di una metamorfosi che non ammetteva confini. Gli dèi, per possedere gli umani nel coito, si trasformavano in tori o aquile o cervi, o anche orsi. Reminiscenze di un’epoca anteriore. Quando Ecateo di Mileto, primo storico razionalista, tenta di mettere ordine fra i “molti e ridicoli”23 miti greci per cercare di estrarre da essi una storia e un’origine verosimile, decide questo: che il simbolo non è nulla, solo un’escrezione dell’immaginazione. Guerra fra paradigmi, e fra contesti. 

Simondon descrive la sfasatura che procede dalla “fase magica”, in cui figura e sfondo sono un tutt’uno, e ogni ente è anche ogni altro, come la scissione della magia in sacralità e tecnicità24. Primi passi nella definizione della soggettività. Il sacro è quel mondo che è compiuto, che si contempla e si abbraccia in quanto compiuto – da una soggettività altra, che è la soggettività vera, il dio. Il tecnico è lo spazio di operabilità del mondo; ciò che può essere realizzato, ancora costruito, definito. La violenza, per Girard, è nel sacro, ed è infatti ciò che nel mondo è irriducibile, quel che nel cosmo è compiuto in sé: la tecnica giunge come costruzione di uno spazio in cui la violenza non abbia spazio – le forme si sostituiscono all’amorfo, l’eccesso viene espulso. Eppure, la nascita mitologica della grecità – e di Atene – è costellata di suicidi e sacrifici, principalmente di donne: le figlie dei re Cecrope e Eretteo, poi Ifigenia, Arianna, Antigone. La tragicità è proprio questo: rilevare, di volta in volta, che le cose strabordano sempre dai contorni, che nessuna figura raccoglie completamente ciò che rappresenta. Dall’altra parte del mondo conosciuto, nei Veda, veniva scritto: il mondo è il residuo.

Sacro deriva da una parola latina di significato ambivalente; sacer significa anche maledetto, e Agamben spiega che ciò dipende dall’idea, presente nel diritto romano, per cui l’homo sacer è l’individuo che ha commesso delitto verso il dio o il socius: egli viene “consacrato alla divinità”, alla furia e alla violenza della sua volontà25. L’homo sacer è fatto sacro, e in ciò egli è maledetto ed esiliato – è dato in pasto a ciò che il sacro contiene: la furia dell’amorfo in cui tutto è ogni altra cosa. Nel farsi sacro, la figura purificata e pura (hagnós) dell’uomo viene rigettata sullo sfondo, e si dissolve. Ritorna nel regno senza nomos. Ogni sacrificio è un atto di purificazione, katharsis. Da cosa? Da ciò che si è costitutivamente, prima di purificarsi. Il rito sacrificale è estrazione; solo in questo senso esso può addolcirsi nella rappresentazione teatrale, che per questo è catartica. Lasciare che il mondo accada sul palcoscenico, senza che accada realmente: questo intende Aristotele. Anche per i greci la sacralità è ambivalente e complessa: se hieros indica la divinità, hagios esprime al contempo, come sacer, il numinoso e il corrotto26. Il latino non mantiene due termini per differenziare ciò che è sacro per qualità interiore, divino, e ciò che è sacro per separazione (hagios, hagnos)27. Nella separazione, la violenza è sempre implicata. 

Il sudicio di Sierra è sacro – è parte della sacralità del mondo. Come la violenza di cui i Greci temono la furia, il sudicio si infiltra nella carne poiché è nella carne, ne è una possibile condizione, stato della materia potenziale che corrompe, ammala, maledice – lascia il corpo nelle mani degli dèi, e di Ananke prima di loro. Ciò che eccede alle forme ordinate rischia sempre di riappropriarsi della loro singolarità. La separazione non è mai totale; il sudicio, la violenza – che non è oggetto che può assumere una forma, per la mente, ma è l’assenza di forma, è predicato, violenza che appartiene a qualcosa che non è mai dato, poiché nell’atto continuo di scivolare via da ogni presa. Del sudicio e della violenza non si perdeva mai la cognizione, altrimenti si sarebbe perduto il mondo intero. Per questo, nota Frazer28, ogni rituale non può mancare di riferirsi alla purificazione, riaffermare la separazione, affinarla. Nel sudicio, l’animale, l’uomo, e lo strumento tecnico sono la stessa cosa. 

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“In Grecia un dio nasce da un’occhiata esaltante sulla vita, su un pezzo di vita, che si vuole fermare”29. Così Giorgio Colli descrive la genesi del divino nella storia degli hellenes. La divinità è la forma che emerge dalla trepidazione della metamorfosi, e infatti il dio mantiene la capacità di assumere molte forme, senza paura di perdere se stesso nell’atto. Il dio è una freccia che abbatte. Colli aggiunge che questa immagine di immensa portata – l’occhio che ferma la vita –  “è già conoscenza”30. È la conoscenza: solo ciò che si fissa sullo sfondo può essere analizzato. Ma è già conoscenza perché se “Apollo è il dio della sapienza, in modo esplicito e pacifico, […] dio ‘che agisce da lontano’, [e] la sua sapienza non è quella che trasferisce fuori, poiché lui possiede ‘l’occhiata che conosce ogni cosa’, mentre la sapienza che concede è fatta di parole”31, vi è dinanzi a lui suo fratello Dioniso. Di lui Colli scrive:  “Dioniso nasce da un’occhiata su tutta la vita […], questa è la tracotanza del conoscere: se si vive si è dentro a una certa vita, ma volendo essere dentro a tutta la vita assieme. […] Dioniso è l’impossibile, l’assurdo che si dimostra vero nella sua presenza.”32 Ciò che divide i due fratelli è la distanza da cui osservano le cose. Apollo, frutto di uno sguardo-che-ferma, è a sua volta uno sguardo: è esterno e straniero, intoccato dalla metamorfosi. Dioniso, invece, è la totalità inosservabile che non ha modo di distanziarsi poiché è essa stessa parte di un movimento perenne. Una pupilla che non può posarsi: questa è la sapienza del dio ebbro. 

Quando Kuhn espone la sua idea di interazione fra individui provenienti da contesti scientifici diversi33, afferma una sostanziale incommensurabilità fra i paradigmi: “due gruppi differenti, i membri dei quali hanno sistematicamente differenti sensazioni quando ricevono lo stesso stimolo, abitano in un certo senso mondi differenti”34. Nello studio dei paradigmi scientifici, nota Tresch, Kuhn si spinge a osservare la coscienza incarnata nella sua vita specifica e locale. La riflessione kuhniana risulta perfettamente applicabile agli studi antropologici; in generale, la teoria dei paradigmi incommensurabili è più ampiamente una teoria dello sviluppo del contesto. Nell’intreccio fra la conoscenza rappresentativa e l’esperienza “della resistenza che il mondo applica alla rappresentazione”35 si forma una visione di mondo. L’incommensurabilità non significa incomunicabilità: è proprio il going native la modalità d’accesso di una coscienza, incorporata nel suo contesto, in un’altra – Tresch descrive tale operazione proprio come uno sdoppiamento. Solo un contesto vivo permette interazione; ciò che nel tempo è perduto può solo essere rappresentato e interpretato secondo i propri schemi. In questa visione della relazione fra coscienza e mondo nel contesto, emerge però la questione di cosa significhi, per una stessa coscienza, sdoppiarsi, ovvero cosa significhi esperire il proprio paradigma come un paradigma, e il proprio mondo come un mondo. Fondamentale rilevazione di Kuhn: ogni paradigma è sempre insufficiente e limitato a cogliere la totalità del reale.

La modernità è stata spesso definita come l’orizzonte in cui i segni si sono sostituiti al reale come simulacri, orizzonte del nichilismo semiotico36, dove le grandi illusioni della metafisica hanno trionfato sulla vita, e dove una forma di pensiero ha incapsulato l’essere in una struttura di comprensione totalizzante – il techno-logos. In Baudrillard, il trionfo dei simulacri è espresso massimamente dall’iperrealtà: la sostituzione degli oggetti coi segni. Il nichilismo moderno è una questione gnoseologica: “porre la conoscenza umana esclusivamente al livello del linguaggio, dei simboli, o di altre forme di rappresentazione è svalutare la moneta”37, la cui altra faccia è, secondo Kuhn, il “mondo-in-sè” della natura. Nella rappresentazione, che è la forma eminente di purificazione, si perde la natura sacra della separazione – lo sguardo che si posa sulla metamorfosi, e la ferma. La questione che pone Sierra si definisce proprio a questo livello: teorizzare il futuro mediante immagini come fossero oggetti immobili, prodotti da un oggetto immobile. Nelle nostre visioni ci siamo noi, e in noi ci sono i nostri mondi che non sono che sezioni, vulnerabili e limitate, del reale. Il sudicio è la voce di un reale che non si lascia mai fermare dallo sguardo. 

Nietzsche fa ricadere la responsabilità della fine dell’epoca d’oro della tragedia attica, quella in cui l’equilibrio fra Dionisiaco e Apollineo permettevano un’esperienza bilanciata della metamorfosi e della conoscenza, sulla razionalità socratica, estrinsecazione massima del dispositivo filosofico. Socrate risulta stendardiere di un nuovo dio, lo Hermes maggiore, come lo chiama Laruelle: il volto di un macchinario che scinde, ordina, e universalizza. Il macchinario in cui appare la verità del reale come contenuto manifesto e accessibile, e per cui tale verità si mostra come comunicabile. Dioniso scompare, il suo immergersi nel mondo diventa superfluo, ma anche Apollo subisce il contraccolpo; alla sua sapienza, in lui conchiusa, lo Hermes si ribella – se la verità esiste, essa deve essere completamente esprimibile e deve porsi al livello del linguaggio. Quel linguaggio che Apollo offriva all’uomo come monito: a te, bestia, io concedo la mia parola, per ricordarti che la verità è solo del dio. La sacralità era il monito e la memoria del monito. Abitare un mondo che si è separato dall’amorfo; ricordarsi che esso poggia su una melma che continua a brulicare. La coscienza degli antichi nasceva sdoppiata – e vigile.

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Si chiedeva Primo Levi: Perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria? Il problema che pone Didino attorno alla dissonanza cognitiva di cui è vittima l’occidente, lo stesso che enuncia Levov nella metafora dei due binari che procedono paralleli, la normalità e il suo doppio, non si riferisce mai alla questione della memoria. L’utilità della storia è riconosciuta da Tucidide principalmente nella funzione mnemonica, nella trasmissione dei fatti38, nella conoscenza di quei fatti e nel loro far senso. La questione della storia rimane sempre aperta; la memoria collettiva non è memoria individuale, non ha la stesso effetto concreto. Il qualcosa di sanguinoso e atavico di Levov, che ci insegue occultandosi ai confini della normalità, assume le fattezze informi del sudicio di Sierra; entrambi hanno in comune una falsa alienità – Sierra lo riconosce: stiamo parlando di qualcosa che costituisce il reale, e che noi cerchiamo di gestire censurandolo e alienandolo. La storia è una mnemotecnica, ma è anche l’arte comunicativa dell’imbalsamazione, Hermes tassidermista.

La scienza storica nasce come tecnologia. Dal resoconto romanzato, dalla narrativa teatrale ma conforme di Erodoto fino all’ossessione dell’utile di Tucidide. La storia dev’essere utile, altrimenti è niente; utile a ricordare gli eventi e i fatti di quando ciò che costruimmo, i legami e le istituzioni e l’economia e le relazioni fra di noi, vennero meno, così che possiamo evitarlo in futuro. I greci narrano perché in ogni racconto emerge la questione dell’uomo greco; le grandi liti, i famosi dialoghi, gli eroi e i viaggi e i conflitti, sono spazi in cui gli Hellenes osservano loro stessi: chi siamo noi? Ma se nel mito le origini sono presentate sempre come mancanti – sono perciò mai spiegate, ma disposte come assiomi -, la storia assume un carattere eminentemente positivista. Solo ciò che è visibile e oggettivo è reale: un’origine che non si dispiega non ha valore. Lo sguardo, che osserva il suo oggetto, pretende di studiarne i contorni, pretende la sua immobilità. Apollo, in segreto, odia gli uomini; della sua conoscenza offre solo le parole, e le parole non bastano alla memoria. L’origine è sempre mancante, perché mancante è la possibilità di immergersi in essa. Quando lo sguardo è sicuro di aver fermato un’origine, non è che vittima di pareidolia. Dalla forma trattenuta, lo sfondo può staccarsi – e proseguire. Far collassare la coscienza sugli oggetti: così nascono le dissonanze. 

Colui che continua a testimoniare, e testimonia ciò che è condannato, non è condannato, e sopravvive allo sterminio della sofferenza. È perché non ha sofferto abbastanza, quando invece la sofferenza di dover inscrivere ciò che non può iscriversi senza residuo è la sola pesante testimonianza. […] Attestati, la sofferenza, l’indomabile sono come già distrutti. Voglio dire: testimoniando, si stermina. Il testimone è un traditore.39

Il sudicio di Sierra non si può semplicemente integrare in un’operazione tecnologica. Esso è lo scarto della geometrizzazione della materia, è ciò che eccede sempre l’emergenza delle forme, è l’amorfo che precede le forme e che quindi riappare colando dai bordi, ed è un ricordo inesteso, il monito della precarietà, e dell’arbitrarietà, della separazione. È costitutivo e intrinseco, non gli si deve far guerra né trattarlo da nuova terra incolta da conquistare, reame da geometrizzare e purificare. L’elaborazione del sacro attraverso le tecnologie rituali aveva un compito di esorcizzazione di quell’eccesso che sempre minacciava di riapparire (Girard) – ma per esorcizzare è necessario considerare qualcosa come reale, bisogna osservarlo, contemplarne l’esistenza, ricordarlo. Ogni purificazione contiene l’insudiciamento come suo opposto, ma non solo come residuo: l’insudiciamento è più originario della purificazione, e la eccede in questa originarietà. Ogni origine è sempre differita, sempre riversa nella metamorfosi. Bisogna, nel sacro, trattenere il nefasto nella sua costitutiva inafferrabilità. Nella loro sezione di cosmo, gli déi non possiedono una forma specifica. 

La commistione fra corpo biologico e corpo tecnologico tiene fermo l’“uomo”, che appare nient’altro che un osservatore – un software capace di cambiare agevolmente hardware. Tale commistione, avverte Sierra, fallisce nel pensare le immagini, scambiate per oggetti del mondo. Pensa identità fallaci e differenze fittizie, raccolte sempre nell’affermazione di uno sfondo comune che acquieta il mondo, dio del grembo e del sonno. Le funzioni corporee e le funzioni tecniche, il corpo e i suoi apparati, il sistema e i suoi apparati, la protesi e l’arto, la protesi è l’arto. Pensare la metamorfosi: diffidare delle figure immobili in un paesaggio cangiante. 

Nel sacro convivono il santo e il nefasto. Il rito non è spiegazione, ma manutenzione; perché sia efficace, gli opposti devono apparire, e devono farlo assieme. Il mito, parimenti, non svela nulla del mondo: lo racconta. Rito e mito manifestano l’invisibile. Lo sguardo si posa su ciò che non vede, poiché niente di ciò che si vede è immobile. Nel sacro, lo sguardo osserva la coscienza. Che coscienza era quella che osservava se stessa? Quanto dell’invisibile è sopravvissuto alla morte del sacro? La luce si propaga in ogni direzione, e ogni cosa che è illuminata appare, e ciò che non è illuminato non esiste. Nel mondo senza coscienza, tutto è visibile. 

  1. Un’idea di domesticità “finita, e forse mai esistita a parte che nei sogni del vecchio bambino che si sveglia, e la distrugge svegliandosi” (Lyotard, “Domus e la Megalopoli”, in L’inumano, Lanfranchi, Milano, 2015, p. 238)
  2. “Strip away the artificial constrains that make the world in our image, layer by layer, concept by concept. What remains, as in destruction, is something other than a world, and perhaps something more or less than philosophy, but an encounter with a reminder or non-meaning that philosophy cannot recognize or conceptualize” (D. Roden, “Disconnection at the Limit”, in Symposia Melitensia, 2018 (N. 14), 26)
  3. Cfr. G. Sierra, “Filth as Non-technology”, in Keep it Dirty, vol. a., 2016, p. 1; p. 4
  4. J. Baudrillard, L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris, 2017, pp. 34-56.; Cfr. G. Genosko, Baudrillard and Signs, Routledge, London, 1994
  5. J. Lyotard, Libidinal Economy, tr. I. H. Grant, Bloomsbury, London, 2015, pp. 213-214
  6. Cfr. D. Kagan, “The Dates of the Earliest Coins”, in American Journal of Archaeology, Vol. 86 (3), 1982
  7. L. R. Farnell, The Cults of the Greek States, Cambridge University Press, London, 2010, p. 245
  8. “What are scientific revolutions?” In The probabilistic revolution, ed. L. Krüger, L. J. Daston, and M. Heidelberger, MIT Press, Cambridge, 1987, p. 28
  9. idem
  10. J. Tresch, “On Going Native: Thomas Kuhn and Anthropological Method”, in Philosophy of the Social Sciences 31; 302, 2001
  11. ivi p. 314
  12. ivi, p. 317
  13. “To translate a theory or worldview into one’s own language is not to make it one’s own. For that one must go native, discover that one is thinking and working in, not simply translating out of, a language that was previously foreign”. (Kuhn, The structure of scientific revolutions, University of Chicago Press, Chicago, 1970, p. 204)
  14. Tresch, op. cit., 2001, p. 315
  15. Lyotard, op. cit., 2015, pp. 121-122
  16. W. Benjamin, Tesi sulla filosofia della storia, Mimesis, Torino, 2012, tesi 14
  17. Lyotard, L’inumano, 2015, p. 49
  18. ivi, pp. 40-45
  19. Cfr. Cosmotecnica. La questione della tecnologia in Cina, tr. S. Baranzoni, Nero, Milano, 2021, pp. 29-38. Yuk Hui descrive la cosmotecnica come “unificazione tra ordine cosmico e ordine morale attraverso le attività tecniche”, nozione che “offre immediatamente uno strumento concettuale per superare la convenzionale opposizione tra tecnica e natura, e per comprendere come il compito della filosofia sia quello di cercare e affermare l’unità organica delle due.” (p.29-30)
  20. Solone, Frammenti dell’opera poetica, Testo greco a fronte, tr. M. Noussia, M. Fantuzzi, Rizzoli, Milano, 2001
  21. Tucidide, VII, 64-1, 72-2
  22. R. Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano, 2017, p. 27
  23. “Eκαταῖος Μιλήσιος ὧδε μυθεῖται. Τάδε γράφω, ὥς μοι δοκεῖ ἀληθέα εἶναι· οἱ γὰρ Ἑλλήνων λόγοι πολλοί τε καὶ γελοῖοι, ὡς ἐμοὶ φαίνονται, εἰσίν.” (Ecateo di Mileto così racconta. Scrivo queste cose come mi pare siano vere: infatti i racconti dei Greci sono molti e, come a me appare evidente, ridicoli). FGrHist 1, F 1 J.
  24. G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, éditions Aubier, Paris, 1958, pp. 201-215; A. Bardin, Epistemologia e politica in Gilbert Simondon. Individuazione, tecnica e sistemi sociali, FuoriRegistro, Roma, 2010, pp. 211-230
  25. Cfr. Introduzione a G. Agamben, Il potere sovrano e la nuda vita. Homo sacer, Einaudi, Torino, 2005
  26.  in particolare questa accezione è utilizzata dal commediografo ateniese Cratino, V sec. a. C., fr. 373.  Eustazio di Tessalonica, Eust. 1356.59, XII secolo d.C., traduce hagios con nefasto nel suo Commentarii ad Homeri Iliadem et Odysseam
  27. M. Morani, “Lat. sacer e il rapporto uomo-dio nel lessico religioso latino”, Aevum, Anno LV (1981), pp. 30-46
  28. J. G. Frazer, Il ramo d’oro, tr. L. de Bosis, Bollati Boringhieri, Milano, 2012, pp. 567-70
  29. G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano, 1977, p. 15
  30. idem
  31. ivi, p. 23
  32. ivi, pp. 24-25
  33. “Tradurre una teoria o una visione di mondo nel proprio linguaggio non significa farla propria. Se tale fosse il fine, sarebbe necessario farsi nativi (go native), scoprire che si sta pensando e operando, e non semplicemente traducendo, in un linguaggio che dapprima risultava estraneo.” (1970, 204)
  34. Kuhn, op. cit., 1970, p. 193
  35. Tresch, op. cit., 2001, p. 306
  36. A. Woodward, Lyotard and the Inhuman Condition, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2016, pp. 42-70
  37. Tresch, op. cit., 2001, p. 317
  38. Cfr. Tucidide, Incipit a La Guerra del Peloponneso, Libro I
  39. Lyotard, op. cit., 2015, p. 253
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